27 Giugno 2018 5 commenti

American Woman: il ritorno vintage e femminista di Alicia Silverstone di Diego Castelli

Vent’anni fa era Batgirl in un film bruttarello, oggi fa la madre single negli anni Settanta

Copertina, Pilot

American Woman (3)

Le storie di riscatto, si sa, funzionano sempre, perché a tutti nella vita è capitato di trovarsi in situazioni difficili, e quindi tutti conoscono il sollievo provato nel momento in cui se ne esce. Meglio ancora se questo avviene grazie ai propri sforzi, trasformando le avversità in un’occasione di personale rivincita.
E a maggior ragione continuano a funzionare le storie di riscatto che riguardano le donne, probabilmente perché siamo perfettamente consci che viviamo ancora in un’epoca in cui il “gentil sesso” (che già è denigratorio) viene sempre tenuto un gradino sotto gli uomini: non si parla solo di violenze e abusi, quei traumi che raggiungono più facilmente le pagine di cronaca, ma anche e soprattutto (in termini numerici) di ostacoli e paletti costantemente piantati sulla strada della rappresentanza politica, della parità salariale e via dicendo.

American Woman (1)

Sarà per questo che una serie come American Woman di Paramount Network, ambientata negli anni Settanta e teoricamente ispirata all’infanzia di Kyle Richards (personaggio tv americano famosa soprattutto per The Real Housewives of Beverly Hills), riesce facilmente a riverberare fino al presente, ponendo qualche questione magari non nuova, ma non per questo meno rilevante.

Creata da John Riggi, già sceneggiatore per 30 Rock, American Woman è una comedy da venti minuti, quindi se vi siete spaventati di fronte alla prospettiva-polpettone, potete stare tranquilli ché non è questo il caso. Protagonista è Bonnie Nolan, la classica moglie bionda e perfettina che sta con un marito danaroso e deve preoccuparsi solo dei figli e dei cocktail party. Altrettanto classicamente, nel pilot si scopre che il marito non solo la tradisce, ma gestisce anche in maniera pessima le loro finanze, tanto che il benessero conosciuto da Bonnie fino a quel momento svanisce come una bolla di sapone. Da quel punto, American Woman diventa la storia di una madre single che improvvisamente deve reinventare la propria vita in un mondo che, per le suddette mamme single, è sostanzialmente un postaccio.
Bonnie ha due amiche del cuore, Kathleen e Diana, e per quanto loro non siano nella sua stessa situazione, diventano presto spalle e co-protagoniste di un progressivo percorso di emancipazione e indipendenza.

American Woman (2)

Di American Woman mi piacciono sostanzialmente tre cose, che arrivano in sequenza tipo strati di una cipolla. Al primo strato c’è il cast, che con due icone degli anni Novanta come Alicia Silverstone e Mena Suvari trasmette subito quella botta di nostalgia vintage che si sposa perfettamente con i costumi e l’ambientazione. Attrici anni Novanta per una storia anni Settanta.
Al secondo strato ci sono il tono e il ritmo:
American Woman tratta temi importanti e potenzialmente forti, ma lo fa con la leggerezza della comedy, rimanendo sempre fresca senza diventare sguaiata.
E al terzo strato troviamo una sfumatura meno esplicita, anche se comunque abbastanza evidente: lo scontro che la serie costruisce non è quello fra uomini e donne, che sarebbe magari efficace ma un po’ banale. Lo scontro è fra una donna, simbolo di tutte le “singole donne”, e una società intera che cerca di metterle i bastoni fra le ruote. In quella soscietà ci sono gli uomini, naturalmente, ma anche quelle donne costrette ad accettare i limiti che gli sono stati imposti, finendo col perpetuarli in prima persona, come l’impiegata dell’agenzia di collocamento che, per favorire l’assunzione di Bonnie come segretaria, le consiglia di mostrare di più le gambe. Il consiglio ha un’utilità pratica effettiva (se Bonnie scopre le gambe ha più possibilità di trovare il lavoro di cui ha bisogno), ma sceneggiatura e regia non mancano di sottolineare l’assurdità di quella situazione, in cui una donna consiglia a un’altra donna un atteggiamento degradante senza provare in alcun modo a combatterne le cause, perché ormai ipnotizzata da un status quo completamente arbitrario che viene però percepito come naturale e immutabile.

American Woman (1)

L’ambientazione anni Settanta, al netto dei motivi della sua genesi, funziona nella misura in cui prende la distanze dal presente per raccontare problemi che non sono mai del tutto spariti, diventando quindi una sorta di iperbole narrativa con cui svelare in modo più chiaro certi meccanismi comuni alla contemporaneità. Allo stesso tempo, rimane il dubbio che il racconto sarebbe stato più ficcante se quelle stesse dinamiche fossero state mostrate proprio nel mondo di oggi, per evitare il rischio che una storia di emancipazione femminile negli anni Settanta suonasse necessaria solo-negli-anni-Settanta.
Ma al di là di questo, il vero problema di American Woman è la difficoltà nello spiccare su uno sfondo seriale in cui personaggi e ambientazioni simili sono già stati sviscerati in molte salse. Vengono in mente Desperate Housewives e in parte Mad Men, che però erano di un altro livello e sono state in grado di innovare il linguaggio televisivo in modi che American Woman al momento non si può permettere.

A sua difesa bisogna però dire che è stata piazzata con giudizio a palinsesto: se fosse arrivata ad ottobre, in mezzo al bordello seriale dell’autunno, probabilmente l’avrei mollata in breve tempo. A giugno, invece, c’è abbastanza quiete per pensare di proseguire la visione di un prodotto magari non eccezionale, ma con le sue cosine al posto giusto.

Perché mollare American Woman: una serie fresca e di buon ritmo, con un’impronta femminista giocata con gusto e intelligenza. E poi Alicia Silverstone ha sempre avuto la faccia giusta per queste donne/ragazze dallo sguardo furbo che non si fanno fregare da nessuno.
Perché mollare American Woman: le dinamiche di fondo della serie sono così chiare e strutturate, che di stupirsi proprio non se ne parla.

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