Westworld – Un buon finale non salva la seconda stagione di Marco Villa
Il ricco episodio finale non può salvare da solo la seconda stagione di Westworld, in cui si è perso per strada un elemento non da poco: la narrazione
ATTENZIONE: SI PARLA DEL FINALE DI WESTWORLD
Fare uno sforzo in più: era questa la frase con cui si chiudeva la recensione al primo episodio della seconda stagione di Westworld. Lo sforzo era pensato da parte dello spettatore e le puntate hanno confermato che effettivamente serviva più impegno rispetto al passato per seguire quanto stava accadendo, peccato che il sistema complesso della seconda stagione di Westworld abbia perso per strada un elemento non proprio secondario: la narrazione.
La prima stagione di Westworld aveva entusiasmato per una serie di fattori: perché aveva costruito un racconto complicato, basato su misteri che in poche occasioni venivano svelati, su una manciata di colpi di scena da punto esclamativo e su una sovrapposizione di piani temporali differenti, ma non dichiarati come tali. Il tutto innestato in un contesto affascinante e carico di domande: il parco di Westworld, quello dove tutto è concesso, per citare il sottotitolo della versione italiana di Sky Atlantic. La seconda stagione si svolge nello stesso ambiente fisico, ma tutto è cambiato: lo steccato che separava robot da umani non c’è più e di conseguenza tutto quello che era acquisito è da ricostruire. E qui iniziano i problemi.
La storie a cui ci si è appassionati nella prima stagione, vengono azzoppate in ogni modo: Dolores liberata diventa una macchina da guerra dopo pochi minuti della prima puntata, uccidendo non solo chiunque si metta sulla propria strada (umani o robot), ma anche la sua stessa possibilità di crescere come personaggio. Il risultato è che sappiamo sempre come andrà a finire ogni sua scena, ovvero nel modo più spietato possibile. Persino le scene più forti della stagione, quelle in cui la vittima è Teddy, risultano ampiamente anticipate: nel momento in cui Teddy non riesce a finire i prigionieri dopo la battaglia del forte (ve la ricordate la battaglia del forte? Sembrava dovesse essere il momento di svolta, invece niente) sappiamo già che di lì a poco farà una brutta fine. Tutto questo, intendiamoci, era lontanissimo da qualsiasi previsione al termine della prima stagione, ma diventa pressoché automatico dopo poco più di una puntata della seconda. La stessa Maeve, che ha probabilmente il percorso più tortuoso e affascinante della stagione, viene persa e poi recuperata lungo sentieri sempre più marginali, fino al punto di arrivare a depotenziare quasi del tutto l’ingresso nel parco giapponese, che si aspettava come la svolta dell’intera serie e che invece è stato liquidato in una puntata quasi a sé stante.
A proposito di puntate a sé, non si può non citare l’ottavo episodio, dedicato interamente alla storia di Akecheta: è l’unico episodio in cui i personaggi principali con la p maiuscola scompaiono dal centro della scena ed è per chi scrive la puntata migliore della stagione. E il motivo è semplicissimo: c’è una storia, c’è un racconto che vive di tematiche importanti, ma non si fa cannibalizzare. È il perfetto esempio di passaggio ben riuscito tra prima e seconda stagione: la vicenda di un robot che si risveglia e prende coscienza di sé, l’inserimento di un elemento destabilizzante (un robot pressoché immortale) e di un colpo di scena finale (il legame con Maeve). Tutto al posto giusto, senza grosse menate e con la voglia di raccontare che prevale su quella di spiegare e argomentare.
Se la prima stagione di Westworld metteva in scena una narrazione forte, da cui scaturivano temi altrettanto forti, la seconda cerca di lavorare in senso contrario: mette sul tavolo in modo esplicito una serie di temi importanti, senza però dare la giusta attenzione al modo in cui vengono raccontati.
Il tema dei temi di Westworld, ad esempio: quello del libero arbitrio. Lungo tutta la stagione non si contano dialoghi e mini-discorsi su questo argomento e anche nell’ultimo episodio la parola “scelta” è detta un numero di volte impressionante. Giusto avere dei temi di riflessione, ma sbagliato dichiararli a pié sospinto come oggetti di dialogo e di discorso: spesso invece, si è andati troppo dritti sull’obiettivo, con battute stile: “È questo che ti è sempre importato: l’immortalità”. Accade anche nell’ultimo episodio, che contiene più svolte e scene epiche di quasi tutta la stagione messa insieme, ma che non si salva comunque da momenti di assoluto spiegone e da speech tematici.
Ecco, l’ultimo episodio: al di là della non-perfezione (che non ci interessa, né mai ci interesserà) è qui che si è rivista la vera Westworld. Si sono rivisti i misteri e gli indizi, si sono riviste scene che restano nella memoria (i tori di Maeve) e improvvisi cambi di tensione. E si sono visti persino dei colpi di scena, merce rarissima nelle precedenti nove puntate. Tradotto: il materiale c’è, c’è sempre stato e non abbiamo mai avuto dubbi al riguardo, adesso però c’è anche la certezza che sia stata buttata al vento una stagione pressoché intera.
Prima di chiudere, giusto due righe su William: tanto importante nella prima stagione, al punto da reggere da solo le varie linee temporali con la forza di un cappello, tanto inutile in queste puntate. Il suo è il personaggio più bruciato, sia nel girovagare senza meta nel parco, sia nei rapporti con moglie e figlia. Non c’è niente che sembri davvero pensato, se non la scena post-titoli di coda che suona da beffarda vendetta di Dolores Hale.
Intendiamoci: si parla così ben consci di essere a un livello comunque alto, ma da Westworld ci aspettiamo molto di più per la posizione che si è presa nel panorama seriale contemporaneo. Il punto di domanda sul futuro è enorme: allontanarsi dal parco ucciderà definitivamente la serie o le permetterà di diventare altro, staccandosi dalle costrizioni del suo concept iniziale? L’ultimo episodio fa capire che di cose da raccontare ce ne sarebbero tante e che ovviamente Jonathan Nolan e Lisa Joy sono più che in grado di farlo sfiorando l’eccellenza. Sta a loro scegliere la strada. Del resto, si parla pur sempre di libero arbitrio.
P.S. Ovviamente sì, il varco stile Fringe ha fatto fremere il cervelletto di noi fanatici, nella convinzione che Walter Bishop valga almeno un paio di Robert Ford