Atlanta seconda stagione: è il momento di applaudire sul serio Donald Glover. di Diego Castelli
Di Atlanta si può parlare solo bene, quindi facciamolo!
Mettendo “Atlanta” nel motore di ricerca interno a Serial Minds, là in alto a destra, si ottengono tutti gli articoli in cui abbiamo citato Atlanta. E voi direte “sticazzi”.
La cosa importante, però, è che facendo questa semplice operazione mi sono reso conto che noi, di Atlanta, abbiamo parlato molte volte, ma non articoli veri e propri. C’è un articolo cauto dedicato al pilot, un articolo entusiasta dedicato alla 1×07, e poi basta, il resto sono piccoli ragionamenti da serial moments.
Questa cosa è scandalosa, perché Atlanta è forse la miglior serie tv in giro in questo momento, per lo meno la miglior comedy, e quindi era necessario trovare uno spazio per esaltarne i pregi in modo chiaro e definito.
Lo spazio è questo in cui vi trovate, quindi diciamolo esplicitamente: Atlanta è una serie della madonna.
In America è appena finita la seconda stagione, che su Sky è arrivata tutta ieri sera. Quindi scuse non ce ne sono più.
Anche perché, se possibile, è stata anche meglio della prima, perché ha delineato meglio quelli che sono i temi fondanti della poetica di Donald Glover (quando un autore è sufficientemente figo bisogna iniziare a parlare di “poetica”), senza far perdere un’unghia della forza espressiva dello show, che ha continuato a sperimentare forme e linguaggi, giocando con i generi per prendere mille direzioni diverse e spesso (apparentemente) divergenti.
Atlanta è di fatto un mosaico, a volte così esplicito da sfiorare la serie antologica. La trama principale, legata al percorso professionale del rapper Paper Boi e del suo cucino-manager Earn, potrebbe stare in mezzo episodio, perché il resto è rappresentato da deviazioni, parentesi, incisi, quasi del tutto slegati dalla storia che regge il tutto. Alfred dal parrucchiere, Earn e Van a una festa, Darius in casa di un bianco pazzoide interpretato dallo stesso Donald Glover, di nuovo Alfred inseguito per i boschi da un mezzo maniaco, un flashback con Earn e Alfred ragazzini ecc ecc. Episodi apparentemente slegati, narrativamente e stilisticamente, che solo ogni tanto si riagganciano alla struttura portante, che apre e chiude la stagione.
Il bello però sta qui, nella capacità di tutte queste tessere di unirsi a formare un’immagine comune, che continua a rinunciare a una linea narrativa chiara e definitiva, ma che restituiscono con chiarezza tutto ciò che Glover vuole dire di sé, del suo mondo, e dell’America tutta in cui è inserito.
Le direttrici tematiche sono soprattutto due: il razzismo e la fama, che si compenetrano e si rimandano l’una con l’altra. Ed entrambe queste direttrici vengono filtrate attraverso un concetto molto particolare, mai esplicitamente pronunciato ma quasi sempre presente, quello della “normalità”.
Guardando Atlanta, ormai da una ventina di episodi, si ha la netta impressione che Earn, Alfred e gli altri personaggi siano in primo luogo delle persone normali, inserite in un contesto che normale non è. O che, per lo meno, normale non dovrebbe essere.
Il tema della fama è forse quello più evidente: Paper Boi vuole fare il rapper, e ci tiene che il suo lavoro sia conosciuto e apprezzato. Ci tiene anche a fare soldi, perché no. Ma quello che ottiene dalla fama, concretamente e simbolicamente, è soprattutto fastidio e disagio: che sia per la necessità di avere a che fare con case discografiche viscide e opportuniste, a cui della musica non frega niente, oppure per il fatto di essere riconosciuto per strada a delinquenti che, una volta capito chi è, lo aggrediscono per derubarlo, il povero Alfred non riesce mai ad avere un rapporto sereno col successo che pure persegue. La netta sensazione è che il successo, in Atlanta e di riflesso in America, non sia la conseguenza di un’arte personale che incontra il favore di un pubblico, quanto più un fardello dalle conseguenze imprevedibili, sulle quali la persona investita dal successo non ha praticamente alcun controllo. E se non è certo la prima volta che una serie americana mostra i possibili problemi legati alla fama, raramente abbiamo visto quei problemi trattati attraverso la lente della normalità, dell’impossibilità per Alfred e gli altri di fare una vita normale e concentrarsi su ciò che desiderano.
E da qui si passa al tema del razzismo, perché se Earn e soci faticano a perseguire i loro sogni, è anche perché sono neri. Ancora una volta, però, quello di Atlanta non è l’urlo disperato di una minoranza oppressa che scalcia e schiuma rabbia. Non ci sono le rivolte di piazza, i poliziotti bianchi che uccidono i ragazzini di colore, non ci sono insomma gli elementi che solitamente, partendo dalla cronaca, arrivano alla politica e lì vengono presto dimenticati fino al prossimo spargimento di sangue.
Il discorso portato avanti da Atlanta è molto più sottile, e per questo molto più originale e interessante. Invece che concentrarsi sul razzismo più pacchiano ed evidente, che più che nel razzismo vero e proprio sfocia nella pura malvagità, Atlanta mostra (di nuovo) la normalità del razzismo. I ragazzi neri di Atlanta, quelli che abitano in un ghetto e lottano per uscirne, non si trovano di fronte omoni bianchi e incazzati che gli urlano “negro”. Semplicemente, non hanno le stesse opportunità degli altri. O se le hanno, le hanno una volta sola, senza possibilità di sbagliare. Si trovano impastoiati in una serie di ostacoli e prassi quasi scontati, a volte perfino gentili (come il figlio dell’agente ebreo che spiega, dolcemente e pacatamente, che un manager nero non ha i contatti che servono per fare il grande salto nel business della musica).
Quello di Atlanta è un razzismo subdolo, che assomiglia al semplice mantenimento dello status quo. Il mondo bianco di Atlanta, più che opprimere i neri, non li considera, li lascia nel loro brodo, e se deve tendere una mano la tende a qualcun altro. È dunque un ostacolo molto più difficile da scavalcare, perché molti fanno perfino fatica a vederlo.
In questo senso, Glover non risparmia critiche anche i ragazzi come lui, che spesso nel corso della stagione vengono mostrati come adagiati su un orizzonte di sconfitta e di rassegnazione, da cui forse potrebbero uscire con un surplus di impegno che non vogliono mettere.
Il simbolo di questo atteggiamento è forse Darius, probabilmente il personaggio più intelligente dello show, quello che più di altri è capace di un pensiero filosofico astratta ma sempre coerente, e che viene sempre rappresentato come un mezzo fattone pigrissimo che non combinerà mai niente di buono nella vita principalmente perché non si impegna per ottenerlo.
Quello che stupisce, allora, è la capacità di Donald Glover di costruire un discorso pieno di strati diversi. C’è uno strato di divertimento puro e creatività allo stato brado, fra incontri surreali e momenti comici dal sapore antichissimo. Poi c’è uno strato più metatestuale, fatto di sperimentazione sui generi e sulle tecniche che li descrivono (e così abbiamo puntate-drama, puntate-commedia, puntate-thriller, perfino puntate-horror). E poi c’è un altro strato ancora, quello tematico, quasi mai esplicito e urlato, eppure alla fine chiarissimo, in cui sto ragazzo di neanche 35 anni racconta con pensiero lucidissimo una realtà difficile la cui banalità è molto più potente, e molto più azzoppante, di tanti singoli eventi luttuosi che raggiungono più facilmente le prime pagine dei giornali.
È uno sguardo mai retorico, mai zuccheroso, mai autoassolutorio. Invece di trovare buoni e cattivi evidenti e precisi denuncia una fangosità di fondo, sabbie mobili che normalmente non vediamo o di cui non vogliamo renderci conto, ma che sono lì, e bloccano i piedi di persone di cui, più che pensare male, spesso non pensiamo proprio niente.
E tutto questo lo fa cazzeggiando alla grande, dando l’impressione di aver girato le puntate così, un pomeriggio, perché gli andava.
Se poi ci aggiungete che, accanto ad Atlanta, Donald Glover è pure un rapper di successo nonché uno dei protagonisti dell’ultimo Star Wars, io non so più cosa dirgli.
Bravo.
Ma bravo vero.