27 Marzo 2018 3 commenti

Rise: è arrivato il Glee triste, e il protagonista è Ted Mosby di Diego Castelli

Rise vuole essere il nuovo Friday Night LIghts, ma riesce al massimo a essere il suo cugino brutto

Copertina, Pilot

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Quando vidi il pilot di Glee per la prima volta ne rimasi folgorato. Un perfetto equilibrio fra comedy, romanticismo, drama liceale e musical. Era talmente perfetto che poi non riuscirono a reggerlo, o a giustificarne un seguito, e Glee andò calando di stagione in stagione, anche se bisogna continuare a riconoscerle un posto importante nella storia recente delle serie tv.
Ora mi trovo di fronte a Rise, nuova serie di NBC, e la prima impressione è quella di essere di fronte a un Glee triste, che punta a raccontare gli stessi ambienti e molte delle stesse dinamiche, eliminando quasi interamente la componente comedy e provando a scavare più nel profondo di personaggi complicati e complessati.

In realtà, però, il paragone razionalmente più azzeccato andrebbe fatto con Friday Night Lights. Non solo perché, come in quel caso, siamo di fronte a una serie tratta da un libro di non-fiction (in questo caso Drama High, di Michael Sokolove), non solo perché c’è un’impostazione registica e fotografica che ricorda da vicino il piccolo gioiello cine-seriale di Peter Berg, ma soprattutto perché il creatore di Rise, Jason Katims, aveva già lavorato proprio a Friday Night Lights (e a Roswell), mandando a memoria una certa lezione sul modo di trattare la provincia liceale americana.

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Il problema è che la lezione l’avrà pure mandata a memoria, poi però all’esame ha fallito.
Ho voluto aspettare due episodi per parlarne, perché il pilot mi aveva lasciato sensazioni principalmente negative ma anche contrastanti, proprio perché l’effettiva forza dello stile visivo cozzava con qualcosa che non riusciva a farmi andare a genio l’episodio. Quel qualcosa, giusto per la cronaca, si chiama “pessima scrittura”.
Rise racconta di Lou Mazzucchelli (interpretato da Josh Radnor, ex Ted Mosby di How I Met Your Mother), un insegnante di liceo sposato e con un figlio difficile, forse alcolista, che a un certo punto decide di impegnarsi con il corso di teatro della scuola, gestito da un’altra professoressa che, a suo dire, non sta facendo quello che servirebbe ai ragazzi.
Da qui in poi ve la potete immaginare: la voglia di Lou di costruire qualcosa di nuovo e significativo; tanti ragazzi ognuno con i suoi problemi a casa e a scuola; la stella della squadra di football che viene ingaggiata (diciamo obbligata) anche per il teatro e dimostrerà di avere il cuore e la stoffa; i genitori bacchettoni che osteggiano la scelta di mettere in scena uno spettacolo controverso che prevede anche, Dio non voglia, baci gay, ecc ecc.

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Sia chiaro, l’elenco della spesa non lo faccio in senso denigratorio: è giusto e normale che uno show basato su un concept del genere affronti quei temi e quei personaggi. Però bisogna farlo nel modo giusto.
Rise non funziona prima di tutto perché è troppo esplicita. Vuole essere una serie intensa, drammatica e piena di conflitti, e lo vuole così tanto che si dimentica di costruire quei conflitti gradualmente, facendoli emergere da una situazione normale che rivela il suo retrogusto amaro. In Rise è tutto drammaticissimo fin da subito, e i conflitti, invece che essere vissuti, vengono sostanzialmente “comunicati”.
Nel pilot, per esempio, c’è un errore abbastanza pacchiano: il protagonista chiede di dirigere il gruppo di teatro, e lo fa con l’insistenza di chi ha bisogno di qualcosa che lo possa ispirare e gli permetta di stare a galla in una situazione professionale e familiare di grande disagio. Il problema è che quel disagio ci viene prima comunicato a parole e solo poi mostrato in una scena casalinga, con il risultato che all’inizio Lou sembra solo un menoso con manie di protagonismo.

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Senza voler perdere troppo tempo con i paragoni, bisogna però dire che Friday Night Lights funzionava proprio perché raccontava prima di tutti la quotidianità, e da quella quotidianità (in cui si mescolavano sia la leggerezza della gioventù, sia l’ingigantimento di ogni problema proprio dell’adolescenza) spremeva fuori il dramma vero, ma anche la comicità e l’epica, prendendo una piccola scuola di provincia e facendola diventare metafora di tante cose della vita dei grandi.
Rise invece non ci riesce, non ci conduce per mano in un mondo apparentemente piccolo che poi ci stupisce, ma fin da subito ci urla in faccia la sua rilevanza, il suo essere una serie super impegnata che ci racconta di ragazzi difficili e vite difficili e scelte difficili. Cioè raga, anche meno ansia.

È davvero un peccato perché le potenzialità per fare bene ci sarebbero: le immagini sono magnetiche, le facce dei ragazzi anche, le storie che si portano dietro sono semplici ma pensate nel modo giusto, serbatoi ideali per una serie di tensioni che il filtro del teatro potrebbe/dovrebbe rielaborare e metabolizzare. È il succo di qualunque storia di crescita e passaggio dall’infanzia alla vita adulta, che però qui, ancora una volta, più che messa in scena è spiegata. Guardiamo anche il finale del pilot: Lou ha già fatto incazzare tutti ed è stato sollevato dall’incarico, e ai ragazzi è stato chiesto di mettere in scena uno spettacolo molto più ordinario e meno provocatorio. Loro non ci stanno, e fanno un falò con i costumi di scena, protestando e chiedendo a gran voce il ritorno di Lou. Una sequenza (teoricamente) da “capitano mio capitano”, un momento di unione e la base per costruire qualcosa di importante. Peccato che, di nuovo, non emozioni per niente, perché arriva sostanzialmente dal nulla: non c’è stato il tempo (né la capacità) di raccontare per bene l’affezione dei ragazzi per Lou (come invece succedeva nel pilot di Glee), né il fatto che lui sia meritevole di quell’affetto al di là di un generico “è bravo”, e quindi quella scena risulta in qualche modo necessaria all’interno di questo genere, ma del tutto campata per aria per quello che abbiamo visto.

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Il secondo episodio non si scolla da questa pesantezza fangosa e soffocante, in cui si fatica a trovare un appiglio per guardare una serie che evidentemente non riesce sfruttare i punti di forza che pure avrebbe. Anche perché, me lo son tenuto per il finale, l’ingaggio di Josh Radnor è un clamoroso autogol: Radnor era già il personaggio più fracassapalle di How I Met Your Mother, ma almeno lì era un tassello malinconico in un mosaico che comprendeva ampi margini di divertimento. Come dire, Ted Mosby era noioso, ma aveva accanto Barney Stinson.
Con Rise, invece, Radnor porta la pesantezza di Ted Mosby in un drama che la decuplica, e da cui lui stesso esce schiacciato: il suo Lou è immediatamente odioso, e soprattutto privo di qualunque carisma. Si capisce benissimo perché sia un pessimo padre (il numero di volte in cui chiede al figlio se ha bevuto ha fatto venire voglia di ubriacarmi a me, che di solito bevo solo acqua e coca cola), ma non si capisce perché dovrebbe essere un buon insegnante di teatro. O un protagonista da amare, se è per questo.

Perché seguire Rise: la nostalgia per Friday Night Lights è così forte, che volete dare una chance a qualunque cosa si proponga di assomigliargli.

Perché mollare Rise: si vede così tanto che vuole essere una serie impegnata e di spessore, che alla fine risulta solo pesante e triste.



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