Portlandia – La serie tv sugli alternativi degli anni 90 di Marco Villa
Maledetti hipster, ecco la vostra punizione!
Avete presente la caricatura dei fricchettoni fatta da Carlo Verdone? Ovvio che ce l’avete presente.
Ecco, prendete quell’idea di fondo, trasferitela in un telefilm americano, togliete gli anni ’70 e mettete i ’90.
Portlandia è esattamente questo. Insomma, più o meno, visto che i toni non sono così parodistici. L’idea, però, è sempre quella di perculare il mondo della controcultura, o cultura alternativa, giusto per usare sinonimi abbondantemente passati di moda. La serie (prima stagione di sei episodi da venti minuti), è in onda su Independent Film Channel, ovvero il canale che fa riferimento al Sundance Festival. E già siamo al primo cortocircuito, perché il Sundance Festival (e ciò che rappresenta) è di fatto la versione aggiornata della sottocultura anni ’90, sostanzialmente con l’aggettivo indipendente al posto di alternativa. Creatori e attori principali sono Fred Armisen (scuderia Saturday Night Live) e Carrie Brownstein. Secondo cortocircuito: la Brownstein è stata chitarrista e fondatrice di Sleater-Kinney, gruppo di culto nato negli anni ’90 proveniente proprio da Portland.
Quindi, ricapitolando: gente radical chic che fa il verso ai radical chic del passato. Ottimo. Portlandia (il nome è preso dalla statua simbolo della città) è strutturata come un insieme di sketch: nel corso delle puntate ci sono storie che ritornano e altre che si esauriscono in pochi minuti di racconto. Ognuno di questi sketch ha per protagonisti Armisen e Brownstein, che si scambiano spesso ruoli maschili e femminili. Intorno, una serie impressionante di ospiti. Per dire, nelle prime tre puntate abbiamo Steve Buscemi, Kyle McLachlan, Aubrey Plaza (ovvero April di Parks and Recreation) e Aimee Mann.
C’è la presa per il culo dell’alternativo duro e puro, che va in giro con la bici a scatto fisso e smette di fare qualsiasi cosa se qualcuno meno hip di lui la sta facendo. C’è la coppia di libraie ultrafemministe che aggredisce i clienti (“Quando indichi qualcosa con un dito, invece di un dito io vedo un pene”) nel tentativo di non vendere nulla ed essere non profit fino in fondo. Tutte queste scene sono unite da Portland, ovvero la città dove “il sogno degli anni ’90 è ancora vivo”. Lì, secondo la serie, la gente ha le stesse fissazioni di vent’anni fa (vent’anni, dio mio) e continua a preoccuparsi in modo ossessivo di cose come le coltivazioni biologiche. Per intenderci, date uno sguardo ai primi tre minuti della serie.
Ok, così avete avuto un’idea del taglio non-sense che ha la serie e converrete con me che la parte musicale è geniale. Va detto che, nelle prime tre puntate, è probabilmente la parte migliore che si sia vista. Se da un lato non ci sono mai cose banali o noiose, dall’altro, non sempre si vola alto in quanto a genialità. Ma che ci volete fare? In totale dura due ore e quel tempo se le merita tutto. Poi, andiamo, sapete quant’è indie dire di aver visto una serie misconosciuta in area Sundance?
Secondo me neanche Hipster Hitler la conosce.
Previsioni sul futuro: super guest stars, momenti di totale assurdità. Tanta coolness messa alla berlina. Su, su gioite e pensate a tutti gli hipster attuali: verrà un tempo in cui saranno ridicolizzati pure loro!
Perché seguirlo: perché è veramente, veramente una cazzata adorabile.
Perché mollarlo: perché sarà anche adorabile, ma resta una cazzata
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