The Assassination of Gianni Versace: American Crime Story – La premiere è un ni di Diego Castelli
Riuscirà la seconda stagione di American Crime Story a bissare il successo della prima?
PICCOLI SPOILER, MA DAVVERO POCA ROBA
Nel 2016, chi si trovava a dover fare classifiche delle migliori serie dell’anno non poteva non inserire la prima stagione di American Crime Story, dedicata al processo a OJ Simpson.
Tesa, precisa, ben strutturata, recitata splendidamente sia dai membri più noti del cast sia da quelli meno famosi (ma destinati a diventarlo, come Sterling K. Brown), ACS era riuscita in un compito non da poco: da una parte, creare vera suspense intorno a una storia di cui tutti conoscevano la fine; dall’altra, ben più importante, impedire che la voglia di creare una storia appassionante distogliesse troppo l’attenzione da quello che era il vero valore aggiunto dello show, cioè la rappresentazione non tanto di un processo, quanto dello sguardo su quel processo.
American Crime Story, questo il succo della faccenda, più che dirci cosa era successo a OJ Simpson ci stava dicendo cosa era successo alla giustizia e alla società americana, capace di trasformare un’indagine per omicidio in un baraccone mediatico così potente e soffocante da influenzare la stessa giustizia, diventata niente più che un elemento di spettacolo, inevitabilmente piegata a logiche politiche e d’immagine che, oggi più che mai, rischiano di farla da padrone su tutto.
Scusate il lungo preambolo, ma era necessario per ricordarsi cosa era stata la prima stagione di American Crime Story e, di conseguenza, quale fardello poteva rappresentare per la seconda, chiamata a reggere un confronto assai complicato.
Il pilot di The Assassination of Gianni Versace, diretto dallo stesso creatore Ryan Murphy, ha uno stile ben preciso, soprattutto dal punto di vista cinematografico. Immersa in una fotografia calda e solare, ai limiti della telenovela sudamericana, questa prima puntata si apre sulla vita quotidiana di Versace, stilista fra i più famosi al mondo, uomo ricco che ama circondarsi di cose belle, e che inizia la sua giornata (quella che non terminerà) come una specie di sovrano, circondato da sfarzo ed eleganza e da uno stuolo di servitori.
Anche quando racconta altri ambienti e altri personaggi, questo primo episodio marca una netta differenza con la prima stagione, prima di tutto cromatica. Se là eravamo quasi sempre in tribunale o in ufficio, qui siamo a Miami, sulla spiaggia, coi vecchi in costumino rosso (ma quanti vecchi in costumino rosso ci sono in sto episodio?) e le feste gay piene di sudore brillante e luci stroboscopiche. Qui siamo in tutt’altro mondo, un mondo modaiolo e tendenzialmente felice, creativo e passionale, in cui l’omicidio e il sangue arrivano come fulmini a ciel sereno, a spezzare un equilibrio che pareva solidissimo.
Il pilot gira intorno all’omicidio di Versace, che diventa punto centrale di cui raccontare un po’ di quello era avvenuto prima (come l’incontro e l’amicizia fra la vittima e il suo carnefice) e un po’ di quello che sarebbe arrivato dopo. Soprattutto le indagini, la caccia all’assassino, la fuga di Cunanan e l’arrivo di Donatella, amata sorella di Versace costretta a mantenere saldo il timone dell’azienda nello stesso momento in cui piange il geniale fratello morto.
Ma Versace non è, almeno a giudicare da questa prima quarantina di minuti, il vero protagonista: molta parte del racconto verte infatti su Andrew Cunanan, l’assassino interpretato da Darren Criss (ex Glee), il personaggio più costruito di tutto l’episodio, presentato come una specie di camaleonte sociale incapace di costruirsi una propria personalità, ma in grado di inserirsi in ogni contesto e in ogni amicizia, sparando balle galattiche e facendo gli occhi dolci a destra e a manca, sempre e solo a chi è disposto a riceverli. Una figura che starebbe bene in qualunque storia di serial killer, di quelli che possono trasformarsi in chi vogliono e che per questo sfuggono a qualunque tentativo di cattura. E soprattutto un uomo dal percorso ancora oggi controverso: la sua trasformazione da tizio qualunque ad assassino di quattro persone fra cui Gianni Versace rimane uno dei punti più oscuri della vicenda e forse quello su cui Murphy si concentrerà maggiormente.
E qui però arriva l’altro livello di analisi. American Crime Story parla di casi veri, di cose realmente accadute, e nella sua prima stagione era stata in grado di trovare un equilibrio pregevolissimo fra l’aderenza alla realtà (con attenzione maniacale a certi dettagli visivi e dialogici) e una drammatizzazione inevitabile ma necessaria all’intrattenimento.
Lo scenario, con la seconda stagione, appare almeno in parte diverso e più difficile. Al contrario del processo a OJ Simpson – durato mesi, ripreso da decine di telecamere, popolato da carriolate di personaggi di ogni forma e colore – l’omicidio di Versace è una tragedia molto più circoscritta: per esempio, fra l’assassinio dello stilista e la morte del (presunto) colpevole passano pochi giorni, senza alcun processo in mezzo (no, non è uno spoiler, è la Storia, è previsto che si sappia).
Ci troviamo quindi in una situazione ben diversa, che rappresenta il più vistoso limite, o chiamiamolo timore, del primo episodio: dopo i primi quaranta minuti non sembra ci sia molto altro da raccontare. Vero, Cunanan è ancora in giro, e come detto potrebbe esserci ancora parecchio da speculare su di lui, ma basta per otto episodi? Una domanda in parte tecnica (ci saranno molti flashback sul rapporto fra Versace e Cunanan? Ci si concentrerà su Donatella-Penelope Cruz e la sua ascesa al trono della maison, pure quella una zona non priva di ombre testamentarie e familiari? Si parlerà di AIDS? Si farà piangere tantissimo quel bel pacioccone di Ricky Martin, che interpreta il compagno del defunto?), ma soprattutto emozionale: nella prima stagione, di cui molti spettatori conoscevano i fatti salienti, il culmine era posto alla fine, in corrispondenza di un’assoluzione che fa discutere ancora oggi. Il culmine della storia di Versace invece è, per l’appunto, la sua morte, che gli autori hanno “speso” nel primo episodio.
Nemmeno la prima stagione di American Crime Story, che pure ci era piaciuta da subito, mostrò tutto il suo valore nel pilot (per citare il Villa: “è una serie che andrà per forza valutata sulla distanza”), ma c’era la chiara impressione che il meglio dovesse ancora venire. Quest’anno invece siamo più dubbiosi, sicuramente meglio abituati e quindi snob, pericolosamente inclini a mettere in discussione tutto ciò che non ci sembra all’altezza delle aspettative. E non perché quello che abbiamo visto non ci sia piaciuto, ma semplicemente perché non ci sembrava così nuovo.
Anche per quanto riguarda l’elemento più sociale e massmediale sentiamo un leggero scollamento: ci sono almeno due piccole scene molto forti, in cui viene rappresentato l’attaccamento morboso al vip morto in modi che vanno ben oltre (o ben sotto) l’umana decenza, e che lavorano nello stesso campo di iper-spettacolarizzazione che già avevamo visto all’opera con OJ. Ma al momento appaiono lievemente appicciccate, e il timore è che la colpa non sia degli autori, ma della storia che hanno per le mani, una storia che all’epoca fece comprensibilmente il giro del mondo, ma che non tenne col fiato sospeso per mesi milioni di spettatori. Sembra insomma che manchi un po’ di respiro, a meno che la già auspicata parabola di Cunanan non riesca a trovare la forza metaforica della prima stagione, nel racconto del rapporto tutto sbagliato che troppe persone hanno con la celebrità e la fama (degli altri).
Una fragilità che, in una fase di giudizio inevitabilmente molto più attento e puntiglioso rispetto a due anni fa, cozza anche con certi trucchi un po’ vistosi, con un’attenzione al dettaglio truculento che ricorda fin troppo da vicino le anime più horror di Ryan Murphy, e per noi italiani anche con l’inevitabile consapevolezza che Edgar Ramirez (interprete di Versace) e Penelope Cruz NON sono italiani. Ok, sono molto bravi, e sanno dire la R meglio di qualunque americano (sicuramente apprezziamo quando la parola “calabria” viene pronunciata bene), ma un angolo del nostro cervello non può che sbuffare di fronte a due icone dell’Italia nel mondo rappresentate da un venezuelano e una spagnola che si riconoscono in quanto tali.
Detto che ormai la vera Donatella Versace più che italiana sembra klingon, ma ci siamo capiti.
Insomma, la premiere della seconda stagione di American Crime Story è un ni. È elegante e patinata, sufficientemente forte nei suoi risvolti più duri e cinici, e continua ad avere una sua precisa idea di messa in scena. Sconta però il confronto inevitabile con un’eccezionale prima stagione, che nel raccontare uno dei più grandi eventi della storia televisiva e giudiziaria americana era diventata evento mediatico a sua volta, ma soprattutto autoriflessione collettiva a cui avevano partecipato anche i veri protagonisti della vicenda.
Con The Assassination of Gianni Versace, costruita intorno a una storia dal fiato inevitabilmente più corto, da cui i diretti interessati (la famiglia Versace) hanno tenuto una debita e irritata distanza, l’impressione è che si possa essere di fronte a un intrattenimento buono, magari a tratti pure ottimo, ma non sorprendente.
Ci sentiamo fra otto settimane, sarei felicissimo di essere smentito.