Armando Iannucci da Veep a Stalin: intervista al genio della satira politica di Marco Villa
In occasione dell’uscita del suo film “Morto Stalin, se ne fa un altro”, abbiamo intervistato Armando Iannucci, creatore di Veep e The Thick of It
“Io racconto di uomini potenti che hanno paura del potere”. Esordisce così Armando Iannucci, con una frase che potrebbe benissimo far chiudere l’intervista dopo 10 parole per quanto è precisa e in grado di sintetizzare dieci anni di lavoro in televisione e il suo ultimo film. Soprattutto il suo ultimo film, viene da dire: si tratta di The Death of Stalin, distribuito in Italia da I Wonder con il titolo Morto Stalin, se ne fa un altro giusto per eliminare ogni dubbio sul fatto che non si tratta di un film storico, ma di una satira cattivissima sulle settimane convulse che seguirono la morte del dittatore sovietico nel 1953.
In caso ve lo steste domandando, tranquilli: non avete sbagliato sito. Siamo sempre su Serial Minds e non abbiamo intenzione di allargarci anche al cinema, anche perché le ore a disposizione nella giornata sono per fortuna limitate. Il fatto è che Armando Iannucci è creatore e regista di serie veramente importanti come The Thick of It e Veep. Uno pluripremiato, che a naso riuscirà ad andare parecchio lontano anche con questo film: in sala in Italia dallo scorso 4 gennaio, è un film scritto alla perfezione, che cala in un contesto lontano ed estraneo, riuscendo a metterne in evidenza tutte le contraddizioni. Una commedia nerissima, che fa ridere, ma che non risparmia nulla, perché si parla di un regime violentissimo, in cui esecuzioni e torture di presunti oppositori politici erano all’ordine del giorno.
Il tutto raccontato dal punto di vista del manipolo di dirigenti del Partito Comunista che gestirono l’immediato dopo-Stalin: da Nikita Kruscev (Steve Buscemi) e Georgy Malenjov (Jeffrey Tambor), passando per Vyacheslav Molotov (Michael Palin dei Monty Python) e soprattutto Lavrentij Berija (Simon Russell Beale), capo della polizia politica e gran manovratore. Come da tradizione, Iannucci li descrive come degli omini piccoli così, schiavi delle loro stesse frustrazioni e calati in una situazione incredibilmente più grande di loro. Esattamente come in The Thick of It e Veep. E proprio da questo parallelo parte l’intervista con Armando Iannucci, incontrato in occasione di una presentazione al pubblico di Morto Stalin, se ne fa un altro nelle sale di Anteo Palazzo del Cinema a Milano.
Come in The Thick of It e Veep i protagonisti sono uomini potenti, ma senza alcuna abilità nel gestire il proprio potere. Nelle due serie erano “solo” politici, qui invece possono decidere la vita e la morte di migliaia di persone. Come ha gestito questo cambiamento?
È vero, sono master of life and death, ma non solo nei confronti della altre persone, anche nei loro stessi confronti. Tante delle storie raccontate sono vere, compreso il fatto che quando Stalin ha avuto l’infarto nessuno ha bussato per tutto il giorno perché tutti avevano paura di chiamare i dottori sbagliati. Siamo partiti dalle storie vere, dalla ricerca: siamo andati a Mosca, abbiamo visitato il Cremlino, abbiamo studiato come fossero le persone che facevano parte della cerchia di Stalin. Ho pensato che la chiave giusta fosse mantenere tutto vero e non cercare di rifare in modo divertente quello che è successo: le persone che vennero uccise, vengono uccise anche nel film; quelle che vennero rilasciate, vengono rilasciate.
Nel film si alternano scene molto divertenti, ad altre in cui persone innocenti vengono uccise senza il minimo rimorso. Qual è stata la maggiore difficoltà nell’affrontare questi due binari?
Sapevo che, soprattutto nel finale, ci sarebbero state scene non divertenti. Mentre le scrivevo e le giravo, sapevo di dover essere molto attento per rendere giustizia alla parte di commedia e a quella drammatica. L’equilibrio era fondamentale. Abbiamo passato tantissimo tempo a occuparci di rendere al meglio il bilanciamento dei livelli tra commedia e dramma, per far sì che uno supportasse l’altro.
A proposito di commedia, anche i fatti più farseschi sono accaduti realmente?
Durante le ricerche abbiamo scoperto che in quei giorni circolavano libri di battute e prese in giro su Stalin, Berija o l’NKVD (progenitore del KGB, NdR). Ovviamente se ti avessero trovato con quel libretto rischiavi di essere fucilato, ma la gente sentiva il bisogno di scherzare: possono imprigionarti, possono allontanarti dalla tua famiglia, ma tu puoi sempre ridere di loro, perché non possono toglierti il cervello.
Lavrentij Berija è il cattivo di turno, quello che tiene tutti in pugno: di fatto, la versione sovietica di Malcolm Tucker, il temutissimo portavoce al centro di The Thick Of It.
Malcolm Tucker si limita a lanciare minacce, ma poi non le porta a compimento. Berija è il contrario: parla poco, ma agisce molto. E poi ha un lato molto oscuro. Quando uccisero Berija, durante le perquisizioni e le indagini a casa sua trovarono in cantina resti di ragazzine. Era risaputo che lui girava per Mosca in auto e indicava ai suoi uomini quali ragazze avrebbe voluto. Avevo la sensazione che rendere espliciti questi dettagli avrebbe trasformato il film in qualcosa di diverso, ma alla fine era importante far capire che l’avevano scoperto: è un po’ come Al Capone con le tasse. È come se avessero detto: “è vero, l’abbiamo ucciso, ma lui ha fatto cose terribili, anche a delle ragazzine”.
Il cast è incredibile, immagino non sia stato facile andare da Steve Buscemi e dirgli: “Tu devi essere il mio Nikita Kruscev”.
E lui ha risposto: “No!” (ride, NdR). In realtà se guardi le foto di Kruscev negli anni ‘50 era molto magro e poi aveva questo modo di muoversi molto italiano, parlava anche con le mani. Sia io che Steve Buscemi siamo cresciuti in famiglie italiane in cui ci muoveva molto, quindi ero sicuro che sarebbe stato perfetto. Lui è un attore comico, ma sa anche reggere delle parti drammatiche, sa rendersi spaventoso e nei 90 minuti di film passa da essere una specie di clown al prossimo dittatore. A lui, come agli altri attori, non ho chiesto di fare accenti russi, ho chiesto di fare il proprio accento. L’Unione Sovietica era un impero immenso, con tanti accenti diversi: Stalin e Berija erano georgiani, Kruscev era ucraino, quindi non c’era un unico accento o dialetto. Il modo migliore per renderlo era chiedere ai miei attori di recitare mantenendo il proprio accento, che fosse inglese, americano, scozzese o irlandese.
La sensazione è che Morto Stalin, se ne fa un altro sia per lei anche una grande fuga dalla politica del presente.
L’abbiamo girato prima dell’elezione di Trump, ma tutti continuano a chiederci se in realtà non parli di lui.
Ma in Veep avreste mai pensato di poter mettere una battuta come “My button is bigger than yours”?
No, l’avremmo bocciata subito. O anche “sono uno stable genius”. È oltre qualsiasi cosa e in un certo modo mi spiace per i comici americani: anche se credo che stiano facendo un buon lavoro, perché hanno capito che Trump è il buffone e loro devono comportarsi come veri giornalisti, ricostruendo quello che ha detto e fatto. A quel punto il pubblico unisce i puntini e ride, ma credo sia anche in stato di shock quando li ascolta.
Di colpo in questo panorama anche la Selina Meyer di Veep si staglia come un eroe aspirazionale.
È lei il vero stable genius. È terribile.
Nel momento in cui è passato da The Thick of It a Veep, a fronte di un impianto narrativo pressoché identico, quali sono stati i principali cambiamenti?
In The Thick of It i politici sono molto piccoli, senza potere, mentre in Veep è la seconda in comando e poi diventa addirittura presidente, quindi il palcoscenico è molto più vasto. Malcolm Tucker può esistere solo perché i politici con cui parla sono insignificanti e si fanno bullizzare da lui. È impensabile che Malcolm Tucker possa parlare in quel modo a Selina Meyer, perché probabilmente verrebbe arrestato. E poi il palcoscenico su cui si muove è molto più grande: ovunque vada ci sono forze dell’ordine, sicurezza, grandi folle: abbiamo dovuto ragionare più in grande, anche per l’impatto che provoca tutto quello che Selina fa. The Thick of It avremmo potuto girarlo in tre stanzette, con Veep ovviamente non poteva essere così, anche solo per il fatto che gli Stati Uniti sono un paese enorme, anzi, molti paesi diversi che devi cercare di bilanciare.
Il successo di Veep vi ha sorpresi?
Eravamo degli inglesi che andavano negli Stati Uniti per prendere in giro i loro politici, non era scontato che la prendessero bene. In realtà dissero che avevano bisogno di qualcuno che venisse da fuori per poter avere quell’occhio distaccato che loro non avrebbero potuto avere. Gli americani poi sono molto generosi: nonostante quello che dice Trump, sono molto accoglienti.
Da qualche anno è uscito da Veep, le manca non essere più su quel progetto?
Non puoi più competere con la Casa Bianca. Mi manca, ma era la cosa giusta da fare e poi quando ho staccato stavo già pensando a Morto Stalin, se ne fa un altro. Ho fatto 4 stagioni di Veep, molto più di quanto avessi mai fatto in precedenza sullo stesso progetto. Era sufficiente così, l’unico modo per evitare di bloccarsi è stare sempre in movimento.
Uno degli elementi più divertenti delle sue serie sono gli insulti elaboratissimi lanciati dai personaggi. Come nascono in fase di sceneggiatura?
Avevamo una squadra che si dedicava agli insulti. Io volevo sentire persone che si insultavano, ma che usando ogni volta espressioni diverse e molto articolate. Non volevo sentire le solite parolacce, anche perché io nemmeno le dico. Quando sceglievamo un nuovo attore ero sempre molto chiaro: gli dicevo che prima o poi sarebbe stato insultato per il suo aspetto fisico. Sorry, ma era così.
Durante il referendum sulla Brexit, David Cameron avrebbe avuto bisogno di un Malcolm Tucker?
Oh sì, ne avrebbe avuto un gran bisogno. È assurdo. Chi voleva la Brexit non pensava di vincere. Anche Donald Trump non pensava di vincere. È assurdo, non ci si può credere. Forse non prendiamo più sul serio le elezioni, pensando che è tutto uguale, non cambierà mai niente. Poi di colpo ti accorgi che sono delle cose importanti. A proposito, buona fortuna per le vostre elezioni.
Dopo questa fuga nel passato, pensa di tornare ancora alla satira sulla politica contemporanea?
Il prossimo progetto andrà ancora più indietro nel tempo, nell’età vittoriana, perché sarà un adattamento di David Copperfield di Charles Dickens. Parla di classi, di libertà, povertà, adolescenza, età adulta. Ci sono temi enormi, è triste e divertente insieme. In realtà la satira politica è quello che ho fatto negli ultimi dieci anni, oggi credo che questi giornalisti-comici stiano facendo un ottimo lavoro. Sarebbe impossibile scrivere materiale di finzione, perché non potrebbe mai essere più forte e assurdo di questa realtà. Però in effetti si sta parlando molto di come non si possa credere più a ciò che credevi prima, a questa novità che i fatti non sono più fatti, con le fake news, le finte narrazioni. In realtà il succo di tutto è che pensiamo che la democrazia sia stabile e perfetta, ma non è così. Basta una sola cosa per far saltare tutto, quindi bisogna starci attenti, bisogna curarla con attenzione. Mi ricordo che quando mio padre emigrò in Gran Bretagna dall’Italia non votò per tanti anni. Quando gli chiesi perché non votasse, mi rispose che l’ultima volta che aveva votato era ancora in Italia e che poi al governo andò Mussolini. Solo perché è democrazia, non significa che sia perfetta: bisogna sempre stare in guardia.