The Crown – La seconda stagione tra solidità ed eleganza di Marco Villa
Poco più di un anno fa, parlammo per la prima volta di The Crown su Serial Minds e il primo aggettivo che scegliemmo di usare fu: rischiosa. Rischiosa per la sua volontà di essere ciò che più di ogni altra cosa sembrava lontano dall’identità e dall’immagine di Netflix, ovvero un classico. Il servizio di streaming che ha rivoluzionato il mondo della televisione (e non solo) che si approcciava alla monarchia inglese, simbolo di tradizione e non-cambiamento. Il risultato, lo sappiamo, è stato di assoluta eccellenza: scrittura e regia a livelli altissimi, un cast di interpreti principali da applausi e di comprimari non meno validi e il giusto riconoscimento con due Golden Globes e tre Emmy. Nonostante questi riconoscimenti, un anno dopo, il miglior aggettivo per descrivere la seconda stagione di The Crown rimane sempre lo stesso: rischiosa, anche se i motivi della scelta, sono ben diversi.
La prima stagione di The Crown raccontava la trasformazione di Elisabetta II da ragazza a monarca. Non certo una ragazza come tante, ma senz’altro una giovane donna che non aveva la forza psicologica (e fisica) di reggere la corona sulla propria testa. A suo modo, una storia di formazione, per quanto unica. La seconda stagione di The Crown invece racconta la storia di una regina che ormai sa come comportarsi, che può affrontare momenti di dubbio e di sbandamento dovuti all’avere inserito un pilota automatico, ma che di fatto è pienamente consapevole del proprio ruolo e di cosa questo comporti. E qui arriviamo al rischio, perché a fronte di una protagonista che non ha grossi scossoni davanti a sé, l’incombenza di dare forza al racconto ricade tutta sui personaggi secondari, con la possibile e ovvia conseguenza di trasformare la serie stessa. Un rischio che è stato però evitato con grande eleganza, perché la seconda stagione di The Crown regge senza problemi e ripaga tutte le aspettative di chi ha amato la prima stagione.
Se il problema più grande era creare tensione drammatica pur non avendo momenti cruciali come la morte di un re o un’incoronazione, gli autori di The Crown hanno avuto l’ottima intuizione di creare una serie dentro la serie, mettendo in fila i primi tre episodi con l’escamotage del flashback per raccontare i cinque mesi in cui Filippo ed Elisabetta sono stati lontani per il viaggio del principe consorte in giro per il mondo. Quella dell’indipendenza e del ruolo di Filippo è una questione già aperta nella prima stagione, ma qui diventa il fulcro di un meccanismo narrativo che permette di tenere alta l’attenzione fin da subito e di condurre a una resa dei conti fondamentale per il rapporto dei due.
La vita di Filippo lontano da palazzo è un tema che tornerà anche nel finale di stagione, a suggellare l’ultima inquadratura dell’ultima puntata. Si tratta dell’unico arco narrativo che va a coprire più puntate in maniera preponderante, perché per il resto la seconda stagione di The Crown si configura quasi come una serie di episodi autoconclusivi, che cominciano con la messa in scena di un problema, proseguono con il trattamento del problema stesso e si concludono con la sua risoluzione, non necessariamente con lieto fine. Abbiamo così la puntata sul passato nazista dello zio che fece il gran rifiuto, quella sull’incontro con i Kennedy (con tanto di flashforward alla morte di JFK e ritorno), quella sull’infanzia di Filippo.
Alla luce di quanto detto poche righe fa e dei nuovi rischi di questa seconda stagione, la scelta è del tutto comprensibile, ma finisce per mettere spesso Elisabetta in secondo piano, rendendola una sorta di osservatrice privilegiata di quanto accade intorno a lei. Può sembrare sminuente, ma in realtà è l’ennesima conferma di quale sia il vero fuoco di The Crown, ovvero, come da titolo, la corona, la monarchia. Non è un caso che il momento in cui Elisabetta si rende più attiva sia quello in cui coinvolge Lord Altrincham per ottenere consigli su come cambiare la monarchia per salvarla.
Il centro di quella puntata è la scelta di trasmettere in tv il discorso di Natale, a svantaggio della radio, che era il mezzo scelto fino a quel momento. Il discorso è forse il punto più alto nell’interpretazione di Claire Foy, capace di rendere alla perfezione quel misto di distacco e imbarazzo che caratterizzò il vero discorso della regina. Piccolo inciso: nel vero discorso del Natale 2017, la vera regina ha citato lo speech del 1957 come pietra miliare. E via di cortocircuiti.
La citazione di Claire Foy era d’obbligo, visto che questa è stata la sua ultima stagione in The Crown, prima dell’avvicendamento con la più matura Olivia Colman per le prossime due stagioni. Meritano però applausi anche altri interpreti, su tutti Matt Smith, sempre più calato nel ruolo e capace di riprodurre quell’andatura un po’ goffa e piegata su se stessa tipica del principe consorte e Vanessa Kirby, che dà ancora più calore e colore rispetto ai primi episodi alla sua problematica Principessa Margaret, senza però scadere mai nel cliché della nobile maledetta.
La seconda stagione di The Crown ci consegna una serie che si conferma solida e affascinante, in grado di reggere anche sulla distanza, senza perdere un briciolo di forza ed eleganza. Sì, perché la scrittura di The Crown si conferma di una raffinatezza assoluta, un vero punto di riferimento.