2 Gennaio 2018 3 commenti

The Marvelous Mrs Maisel: un commento finale per parlare di femminismo (quello vero e giusto) di Diego Castelli

A stagione ultimata, una riflessione sul perché Mrs Maisel chiude alla grande una stagione di importante femminismo seriale

Copertina, Olimpo, On Air

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SPOILER SU TUTTA LA PRIMA STAGIONE

All’inizio delle vacanze natalizie mi mancavano 2-3 episodi di Marvelous Mrs Maisel, e se c’è una cosa bella delle ferie con pochi episodi è la possibilità di rimettersi in pari con quasi tutto quello che si è lasciato indietro durante l’autunno.
E se un mesetto fa una serialminder entusiasta e autoproposta ci parlava dell’efficacia stilistica e della piacevolezza della nuova serie di Amy Sherman-Palladino, arrivati alla fine vale la pena spendere pochi minuti per un discorso più ampio, in cui Mrs Maisel diventa tassello finale di un anno assai particolare.
In un modo o nell’altro, e non sempre in un’accezione felice, è stato un anno al femminile. E se a livello seriale ce ne stavamo già accorgendo con prodotti di grande spessore come The Handmaid’s Tale, Big Little Lies e GLOW, lo scoppio dello scandalo Weinstein e di tutto ciò che ne è seguito ha portato alla necessità di un’ulteriore riflessione sul ruolo e sui diritti delle donne in una società occidentale che ha sempre dimostrato, a parole, di saper identificare certi problemi e criticità, rivelandosi però culturalmente impreparata a risolverli davvero.

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In questo contesto The Marvelous Mrs Maisel, che pure è stata concepita e scritta prima dell’esplosione mediatica dello scandalo, riesce comunque a diventare un ulteriore, pregevolissimo tassello in un discorso tanto necessario quanto complesso.
Mrs Maisel è una serie femminile e femminista, e in questo non si discosta dalla precedente produzione di Amy Sherman-Palladino, che da Gilmore Girls a Bunheads ha sempre raccontato il mondo femminile, soprattutto nella cornice dei rapporti familiari e delle atmosfere di provincia. Mrs Maisel però, vuoi per una intrinseca maturazione della sua creatrice, vuoi per le maggiori libertà creative ed economiche lasciate da una piattaforma come Amazon, rappresenta un deciso passo avanti nella poetica dell’autrice losangelina, da un punto di vista sia stilistico che tematico.

Cosa significa dice che Mrs Maisel è una serie “femminista”? No perché il termine si presta a molteplici interpretazioni, spesso è usato impropriamente, e altrettanto spesso viene sbandierato da gente di scarso cervello che ne fa un uso distorto e controproducente alla stessa causa femminista, che di per sé non è solo legittima, ma assolutamente necessaria: la parità di diritti e opportunità fra uomini e donne dovrebbe essere cosa scontata, e il fatto che nel 2017, pardon 2018, ancora non lo sia, è un problema talmente gigantesco che a volte non sappiamo nemmeno da che parte cominciare per approcciarlo.
Con Mrs Maisel la definizione di base è in realtà abbastanza semplice: in quanto period comedy con protagonista una donna tutta casa e famiglia che decide di coltivare una passione prettamente maschile, sfidando convenzioni, stereotipi e resistenze, la serie è di un femminismo “da manuale”.
Ma l’errore sarebbe pensare che non ci sia nulla sotto questa superficie in qualche modo autoevidente. Se The Marvelous Mrs Maisel raccontasse esclusivamente di una donna sola contro il mondo, che esce da una condizione miserevole per fargliela vedere a tutti, sarebbe magari ugualmente gustosa da seguire, ma perderebbe molto dello spessore che invece ha.

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Si tratta di una questione di sfumature successive, delicate e impalpabili, ma decisive. Innanzitutto bisogna dire che Midge, all’inizio della serie, non è affatto infelice o depressa. Sarebbe facile mettere in scena il riscatto di una donna maltrattata e miserevole, ma in realtà il primo episodio ci mostra una protagonista colorata, sorridente e piena di energia, che ha introiettato perfettamente e senza scossoni il ruolo che la società ha pensato per lei. Questo è un primo punto fondamentale: seguendo la lezione di sua madre, e senza che ai genitori di Midge venga imputato nulla di davvero grave dalla sceneggiatura, la protagonista è inizialmente imbrigliata in una gabbia culturale che non ha scelto per sé, ma che crede di volere. È l’immagine della donna di casa perfetta e irreprensibile, la cui vita è interamente dedicata all’ordine, alla serenità, e al supporto del marito, in questo caso rappresentato da un giovanotto benestante (ma non per suo merito) che aspira a una vita artistica che non si può permettere per sua semplice inadeguatezza.
Quando Midge scopre del tradimento del marito, e finisce con l’esibirsi in un pezzo di cabaret tanto spontaneo quanto travolgente, apre una porta di cui nemmeno immaginava l’esistenza, che la proietta su un futuro di crescita più personale e meno eterodiretto, una prospettiva che non aveva mai contemplato e anzi, a voler essere più cinici, nessuno le aveva mai permesso di vedere.

E già qui siamo contenti, ma c’è di più, altre sfumature. Nel momento in cui Midge decide di buttarsi nella standup comedy, di per sé una decisione “poco femminile”, scopre che il percorso di emancipazione è ben distante dall’essere finito. E questo perché, anche quando decide di dare una scossa alla sua vita, la società intorno a lei prova a costruire una nuova gabbia, una nuova normalizzazione. Da più parti, dal pubblico, dalle forze dell’ordine, da amici e conoscenti più o meno in buona fede, arrivano ostacoli e resistenze che si inseriscono tutte a un medesimo paradigma: ok, puoi fare la comica se proprio vuoi, ma non così.
Buona parte della prima stagione di The Marvelous Mrs Maisel non vede Midge alle prese con la difficoltà di fare il mestiere della cabarettista, bensì con la costante volontà altrui di imporle il modo in cui farlo. E non è una distinzione sottile, perché è esattamente la differenza che passa fra una vera libertà femminile, e una finta libertà limitata da barriere poste dall’esterno, che dicono “ok, puoi fare questa cosa, ma sei una donna, quindi non puoi farla proprio come la fanno gli uomini”. Battute sì, ma non troppo volgari. E se sei volgare, non dimenticare però di essere carina. E perdio non sia mai che tu voglia far vedere le tette (a meno che, sottinteso, qualcuno non te l’abbia espressamente chiesto).

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In questo discorso, l’incontro più importante per la protagonista è quello con Sophie Lennon, una comica per la quale Midge nutre ammirazione e rispetto, ma che si rivela ben diversa da come i fan se la dipingono. Spontanea e schietta sul palco, Sophie conduce in realtà una vita completamente diversa rispetto al personaggio un po’ grezzo e campagnolo che l’ha resa famosa, e qui torna in gioco il discorso delle maschere e delle gabbie imposte. Non tanto perché non è accettabile una distanza fra un autore/performer e i suoi personaggi (ci mancherebbe), quanto perché nella vita di Sophie Midge ritrova la stessa impossibilità di autodeterminazione che lei sta sperimentando nella sua. Certo, Sophie è ricca e famosa, ma non ha alcuna possibilità di fare qualcosa che sia davvero suo, perché intorno a lei è già stato tutto deciso. La fama e la gloria, più che suoi personali traguardi, sembrano niente più che fortunate concessioni. D’altronde è lei stessa a dirlo: Bob Hope e Lenny Bruce hanno il permesso di non avere un personaggio dietro cui nascondersi, perché loro hanno il pene.
La ribellione di Midge, che costruisce un pezzo al vetriolo contro le ipocrisie di Sophie e se ne sbatte delle conseguenze, è dunque un ulteriore passo su una strada potenzialmente avara di successi, ma che Midge possa considerare realmente sua e di nessun altro.

L’ultimo step, per la favolosa signora Maisel, è la perdita della propria perfezione. Nel momento in cui Midge ricade nella passione con l’ex marito, uno sguardo superficiale potrebbe vederci una sconfitta, perché Midge perdona da brava moglie un uomo che non meritava la sua bontà. Ma non è così, perché la Midge che finisce a letto con Joel non è la Midge che l’aveva sposato. È invece una donna che può permettersi di svegliarsi coi capelli scompigliati e senza trucco, perché ora la scelta di come gestire e mostrare il proprio corpo è sua e solo sua. Ed è per questo che, al contrario della sua agente, Midge non ha bisogno di mascolinizzarsi per trovare un posto nel mondo degli uomini. Semplicemente, la spiccata femminilità (e bellezza) di Midge si trasforma da imposizione di una società che la vuole sempre perfetta, a strumento con cui creare un contrasto fra ciò che ci si aspetta da lei, e ciò che invece è in grado di raccontare e svelare di quel mondo ideale che di ideale non ha proprio niente.

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In questa progressiva ma decisiva trasformazione, Joel finisce con l’avere un ruolo secondario, ma le sue ultime scene sono ugualmente fondamentali. Il marito di Midge si pente della sua condotta e torna dalla moglie, chiedendole di concedergli un’altra possibilità. Ma per quanto Joel sia o appaia sincero, Amy Sherman-Palladino ci mostra l’inevitabile precarietà della sua condizione: Joel torna da Midge perché il suo piano di libertà è fallito. La nuova fidanzata è una brutta copia della moglie, il lavoro non gli dà soddisfazione, e la sua vita senza Midge si scopre semplicemente peggiore di quella con. Ma a questo punto, se anche Joel torna a casa con la coda fra le gambe, non lo fa per Midge, lo fa comunque per se stesso. Solo che nel frattempo Midge è cambiata, il che porta inevitabilmente a un nuovo scontro: Joel pensa di riavere tutto ciò che aveva prima, con al primo posto una moglie devota che supporta le sue ambizioni. Peccato che invece lei abbia in qualche modo fatto proprie le ambizioni di lui, mostrando un talento ben superiore nel realizzarle. E qui allora viene fuori la vera natura di Joel, che malgrado i buoni propositi non è in grado, se non nell’ultima scena e con una buona dose di amarezza, di accettare una moglie che sia più brava e meritevole di lui.

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Mi chiedo anche quanta autobiografia ci sia in tutto questo, considerando che Amy Sherman-Palladino si trova più o meno nella stessa condizione di moglie talentuosa di un marito che fa le stesse cose sue, ma meno bene. Suppongo che la loro unione funzioni meglio di quella di Midge, ma è indubbio che la brava Amy abbia potuto attingere da sentimenti e autoanalisi di portata ventennale.
Nemmeno l’ultima inquadratura è priva di importanza, in The Marvelous Mrs Maisel. Dopo aver ragionato a lungo sull’opportunità di usare un nome d’arte (ipotesi caldeggiata soprattutto dalla sua agente, che è amica sincera e donna indipendente, ma comunque un gradito indietro alla sua cliente sulla strada del femminismo), alla fine Midge usa il suo nome vero. Ma attenzione, non è proprio il suo nome, perché Maisel è il cognome del marito. Una sceneggiatura meno arguta o più interessata all’effetto immediato, avrebbe probabilmente concluso la stagione su un “sono la signorina Weissman”, in una forma più decisa, ma a conti fatti banale, di riappropriazione totale del sé al di fuori del giogo matrimoniale.

Ma il concetto è che il problema non è mai stato quello. È il femminismo peggiore quello che si fissa sulle nomenclature e sull’uso degli articoli, che vorrebbe cambiare i nomi dei funzionari pubblici prima di aver ottenuto la parità di salario fra uomini e donne. Il femminismo di Midge, molto più compiuto e consapevole, se ne frega di un cognome, che la protagonista continua a usare per semplice abitudine e perché si trova a suo agio. Quello che conta, nell’episodio finale, è un traguardo molto più significativo e profondo, cioè la possibilità, per Midge, di vivere la vita come vuole, o meglio di affrontarla con le stesse opportunità e gli stessi rischi dei colleghi uomini. Nessuna corsia preferenziale, solo una tabula rasa in cui ognuno, con pisello o senza pisello, possa giocarsi le sue carte. Che ti chiami Maisel, Weissman o chissà cos’altro, a quel punto poco importa.



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