The Orville e Discovery – Ma alla fine qual è la vera Star Trek? di Diego Castelli
Ben due serie a pretendere l’eredità di Star Trek, vediamo alla fine com’è andata (e magari diamo a MacFarlane quello che è di MacFarlane)
A conti fatti, in questa stagione appena trascorsa ci siamo trovati di fronte a un evento forse mai visto prima: il debutto della nuova incarnazione di un franchise famosissimo, e la contemporanea uscita di un’altra serie che, a detta di molti fan, rappresenta quel franchise meglio dello show che ne porta effettivamente il nome.
Se vi ricordate un altro momento del genere nella storia seriale ditemelo perché proprio non mi viene in mente.
Se non si fosse capito parliamo di Star Trek: Discovery e The Orville, la prima a rappresentare il nuovo capitolo della saga ormai pluridecennale, e la seconda che nasce come omaggio-parodia (e poi omaggio vero) firmata da quel nerdone di Seth MacFarlane.
Io non mi arrogo il diritto di rispondere alla domanda del titolo, non mi sento abbastanza esperto del franchise per farlo (non credo nemmeno che una risposta obiettiva ci sia), ma mi piaceva riproporre la questione ora che abbiamo visto un po’ di episodi, per risollevare un interrogativo seriale che forse ha ricevuto meno curiosità di quanto avrebbe meritato.
Va anche detto che questo articolo mi serviva soprattutto per riabilitare The Orville, e l’idea della domanda mi è venuta solo per attirarvi più facilmente qui.
All’inizio non ci sono andato tenero con The Orville (se non vi ricordate la recensione del pilot la trovate qui). Ora mi sento di correggere un po’ il tiro non tanto perché mi sono ravveduto io, quanto perché – perdonate la presunzione – l’hanno fatto loro.
Il problema del pilot di The Orville era un equilibrio instabile fra l’omaggio a Star Trek e la comicità di MacFarlane, quasi sempre creativa e ficcante ma di solito poco adatta a improvvisi squarci di serietà (la sua Family Guy, per esempio, non ha quasi mai i momenti drammatici o teneri che invece si vedono spesso nei Simpson, perché l’approccio è proprio diverso).
In questo senso, la sua saga spaziale assomigliava a una parodia, con la comicità sguaiata e la somiglianza troppo netta con Star Trek, ma poi cercava di essere anche seria e credibile, cosa che finiva col rendere la puntata un ibrido strano e quindi poco compiuto.
(poi lo so che qualcuno invece s’è appassionato subito, ma l’articolo lo sto scrivendo io, quindi va così).
Cosa è cambiato dunque? Beh, molto. Se guardiamo a come The Orville è proseguita dopo quel pilot, ci accorgiamo facilmente di un dato banale: la comicità si è molto asciugata, diventando meno insistita e volgarotta, ritirandosi nell’ambito di un alleggerimento – comunque gradito e gradevole – di una storia che però punta ad altro: alla scoperta, alla curiosità, all’esplorazione spaziale ma anche morale e tematica di concetti e preoccupazioni tipiche del nostro tempo.
È come se MacFarlane avesse avuto bisogno di farsi riconoscere, di presentarsi come il solito buontempone stupidone, per poi rivelare la sua vera natura, quella di appassionato di Star Trek che vuole davvero riproporre l’atmosfera e i ritmi della serie classica.
E se questo, come pare, era davvero l’intento, allora l’operazione è riuscita. Non solo commercialmente, con la serie che ha fatto registrare buoni ascolti ad è stata rinnovata per la seconda stagione, ma anche narrativamente e stilisticamente. Libera dall’obbligo della risata a tutti costi, e pure considerando una serie di difetti ineliminabili come il fatto che MacFarlane ha la faccia espressiva come la mia testa pelata, The Orville è diventata quello che voleva, cioè un’operazione nostalgia a cui manca davvero solo il bollino di Star Trek perché per il resto (pure nella mia relativa ignoranza sul franchise) c’è davvero tutto, a cominciare dalla voglia di usare la fantascienza per metaforizzare e ragionare sulla nostra realtà extratelefilmica.
Ma non è solo questione di filosofia, è anche materia di stile visivo, che parte dal design degli ambienti e dei costumi, passa dalla regia chiara e dalla fotografia luminosa, e arriva a precise scelte di ritmo e di montaggio: si veda ad esempio come molte puntate vengono troncate non tanto sulla punta emotiva della narrazione, quanto alla fine di un ragionamento. La storia prosegue finché l’episodio ha detto tutto quello che doveva dire su una tale faccenda (semi-cit), e quando ha finito termina, senza fanfare e senza grossi cliffhanger, tipicamente con uno shot della nave che si allontana: anche questa è tv anni Sessanta.
Dall’altra parte abbiamo invece una Discovery che, a dispetto del nome, non ha puntato tutto sul concetto di scoperta, ma ha messo in piedi una struttura familiare, politica e militare che ha cercato uno stile più adulto e al passo coi tempi, lontano dalle tentazioni della nostalgia.
Ora non è questione di decidere cosa sia meglio o peggio, il gusto poi non si discute, ma è chiaro che l’approccio della “vera” Star Trek è quello di spingersi oltre, dove nessuno è mai giunto, cercando di far compiere un passo avanti alla saga da tutti i punti di vista. The Orville invece, in piena legittimità, sostiene che questo passo avanti di fatto non serva, perché la prima Star Trek era perfetta così com’era, adattabile a ogni epoca, e così andrebbe riproposta.
Nella nostra classifica dei pilot del 2017 abbiamo dato più lustro a Discovery, un po’ perché nella battaglia fra pilot (e specificamente pilot), Star Trek aveva avuto la meglio, e un po’ perché effettivamente premiamo più volentieri chi tenta di fare qualche passo in avanti, anche se magari zoppica o tentenna.
Ma intanto, per la bontà natalizia che inevitabilmente ci impregna in questi giorni, mi interessava dare a The Orville quello che è di The Orville, riconoscendo la capacità di MacFarlane e soci di capire quale doveva essere la loro strada e percorrerla fino in fondo, puntando a un pubblico magari meno vasto ma che così può essere pienamente soddisfatto. Un’operazione di onestà intellettuale e stilistica che, dopo aver litigato sul pilot, mi sento di premiare.