Peaky Blinders: dai parliamone un po’, e parliamone bene di Diego Castelli
È tempo di fare un punto su Peaky Blinders, troppo a lungo rimandato
Dunque, la cosa è andata così.
Per anni mi hanno (avete) detto di recuperare Peaky Blinders. Nel 2013 il Villa ne aveva scritto una recensione prudente, quando ancora mettevamo le foto piccole negli articoli, ma poi non ci eravamo più aggiornati. E io quel pilot, all’epoca, neanche l’avevo visto.
Poi alla fine l’ho recuperata tutta, appena in tempo per l’inizio della nuova stagione, ma non c’è stato tempo di parlarne prima di inserirla subito nei Serial Moments, praticamente ogni settimana dopo la premiere. Sapete com’è, ci sono i buoni propositi, ma poi scopri di avere tantissima voglia di sonnecchiare sul divano con la bauscina che gocciola dal lato della bocca, e salta tutto.
Stavolta però siamo qui, perché a un certo punto una riflessione un filino più seria su Peaky va fatta. Soprattutto perché, per convincermi, molte persone me l’avevano venduta come il Sons of Anarchy inglese. Un’affermazione che, come potete immaginare, è stata capace di stuzzicare la mia curiosità, ma anche di farmi scendere nell’arena con il coltello fra i denti.
E invece oh, avevate ragione.
Mi son sentito così “ultimo arrivato” a guardare Peaky Blinders, che non credo serva riassumerlo per nessuno (anche se sicuramente non è così). Comunque siamo a Birmingham, negli anni Venti, e una famiglia si affanna dietro al successo con le scommesse e le corse dei cavalli, in un’ambientazione fumosa e operaia in cui a governare sono i gangster e quelli che, pur non riconoscendosi come tali, sono in grado di tenere il passo con loro.
Intrighi, omicidi, violenza, segreti, macchinazioni, corruzione e passioni viscerali.
Il paragone con Sons of Anarchy è certamente calzante sotto molti aspetti, perché parliamo in entrambi i casi di storie di ampio respiro, dall’alto valore epico e tragico, che raccontano ambienti e dinamiche non troppo usuali per la tv, le gang di moticiclisti da una parte e gli anni Venti inglesi dall’altra.
A parlare di anni Venti, peraltro, viene subito spontaneo il paragone con Boardwalk Empire, non privo di possibili assonanze con Peaky ma che, per stessa ammissione del creatore Steven Knight, non rientra nelle fonti di ispirazione della serie inglese semplicemente perché Knight non l’ha mai vista (e che deliziosa manifestazione di ignoranza seriale da parte di un autore di qualità, a-do-vo).
A Son of Anarchy, forte della sua ascendenza esplicitamente shakespeariana, riconosco una maggiore capacità di strapparci il cuore di fronte alla sofferenza di personaggi che amiamo, mentre a Peaky Blinders concedo una maggiore cura visiva e stilistica, con scenografie e costumi di enorme fascino. Però insomma, sono in qualche modo cugine di secondo grado, cosa che va presa come complimento sia per l’una che per l’altra.
A stupire, di Peaky Blinders, è proprio la capacità di rendere interessante un periodo storico solitamente poco battuto dalla narrativa mainstream, ma anche di saper rinfrescare relazioni e dinamiche, quelle fra malavitosi, che invece sono da sempre ingredienti della narrazione audiovisiva.
A catturare davvero l’attenzione, ormai da anni a questa parte, è la tensione che si crea fra l’ambizione dei protagonisti (e di Tommy Shelby in primo luogo), unita però a una vaga consapevolezza di non volersi spingere oltre un certo limite di (in)decenza.
Non ci sono “buoni”, in Peaky Blinders, perché tutti, dai poliziotti ai criminali, sono disposti a qualunque nefandezza per il proprio tornaconto. In questo contesto poco edificante, l’unica forma di bontà diventa allora quella di Tommy, che certo non si fa problemi a delinquere, ma sempre e solo all’interno di un progetto di vita più ampio, che possa consentire ai suoi, un giorno o l’altro, di vivere nella legalità (pure qui ci sono parentele con Jax Teller, volendo guardare).
Interpretato da uno splendido Cillian Muprhy, sempre pacato e sobrio perfino quando lo menano, Tommy è l’indiscusso centro di gravità di Peaky Blinders, perché è su di lui e dentro di lui che si agitano le pulsioni più potenti, a fronte di desideri molto più basici della maggior parte dei suoi comprimari. Tommy ha la responsabilità della sua famiglia e della sua azienda, e cerca sempre di mantenere un profilo sobrio e ragionevole. Allo stesso tempo, è circondato da familiari spesso rozzi o esagitati, che faticano a condividere la sua visione e che quando combattono credono di farlo proprio perché sono criminali, e non in nome di un disegno comune.
In queste settimane di binge watching, l’elemento che più mi ha impressionato è proprio la statura del personaggio di Tommy, in qualche modo costretto a muoversi in un mondo che vorrebbe diverso, ma che gli impone comportamenti e atteggiamenti che lui vorrebbe in qualche modo rinnegare, ma che ormai sono diventati parte di lui, volente o nolente, perché i suoi desideri sono apparentemente incompatibili con un mondo che non sia effettivamente quello in cui vive.
La psicologia e l’evoluzione di Tommy sono in questo senso un simbolo più ampio del periodo storico raccontato da Peaky Blinders, un post-prima guerra mondiale che, come tutti i periodi di uscita da una crisi, diventa terreno fertile per grandi opportunità di sviluppo, ma anche arena polverosa in cui i peggiori istinti umani possono trovare sfogo, specie quando un sistema politico e giudiziario sta cercando di ricostruirsi e riorganizzarsi, lasciando ampie crepe in cui possono infilarsi rigurgiti di violenza, derive autoritarie, atmosfere da tutti contro tutti.
I Peaky Blinders, a metà fra gangster orgogliosi del loro potere ed ex soldati che vorrebbero solo la possibilità di far valere il loro ingegno, diventano dunque protagonisti di un’epopea ambientata in una piega solitamente più nascosta della Storia, ma che proprio per questo li lascia quasi da soli, a cavarsela mentre tutti sono impegnati altrove. Un racconto che però ha il sapore dell’universalità: nel suo miscuglio di razze, interessi e violenze, Peaky Blinders parte da un posto particolare in un tempo particolare, ma riverbera su un più generale concetto di umanità, segnata quasi per sua stessa natura dalla tensione verso l’oscurità e il caos, più che verso la luce e l’ordine.
Facile dunque che in un contesto del genere, in una Birmingham fredda, oleosa e pericolosa, perfino uno come Tommy Shelby, ladro e assassino, possa ergersi come baluardo dell’onore e della speranza in un futuro migliore.
Pensa un po’ come stiamo messi.