Halt and Catch Fire: addio a un capolavoro di Diego Castelli
Non è che Halt and Catch Fire ci mancherà, è che ce la sogneremo proprio di notte
OVVIAMENTE SPOILER SU TUTTA LA SERIE
“Computers are not the thing, they are the thing that gets us to the thing”
Non ho grossi dubbi sul fatto che questa frase, pronunciata da Joe MacMillan durante il series finale di Halt and Cath Fire, sia la più importante non solo del doppio episodio, ma di tutto lo show, perché è una specie di dichiarazione di intenti a posteriori, o se vogliamo un ultimo sigillo su ciò che Halt è stata in questi quattro anni: non tanto, o non solo, una serie che parla di computer e storia della tecnologia, bensì un racconto che usa quegli elementi per dire qualcosa di più profondo, più umano, e certamente più emozionante.
Dare l’addio a una serie come Halt and Catch Fire non è semplice, perché i non moltissimi spettatori che l’hanno seguita conoscono a pelle il suo valore, un valore letterario e cinematografico, da capolavoro vero, anche se magari non conosciuto o esplicitamente premiato come altri colleghi più famosi.
Cercando di tenere insieme il turbinio di punti di vista da cui questo finale potrebbe essere analizzato, mi interessa partire da una considerazione: che Halt and Catch Fire non sarebbe finita esattamente “bene”, nel senso di concedere ai protagonisti il successo planetario che avevano agognato per tanti anni, era ormai palese. E il motivo è banale, quasi tecnico: essendo esplicitamente inserita nella Storia reale, fatta di Yahoo, Steve Jobs, Bill Gates e Atari, il fatto che non si conosca la fama di alcun Comet, o alcun Rover, o alcuna Donna Clark, rendeva evidente l’impossibilità di concedere a Joe e soci un successo realmente concreto, a meno di forzature pesanti e sempre meno probabili.
E da questo punto di vista, sapendo che gli sforzi dei nostri beniamini non avrebbero mai trovato una vera soddisfazione, ero arrivato a guardare Halt come una storia tragica, una storia di fallimento, che raccontasse il lato oscuro e nascosto di un’industria di cui siamo abituati a vedere solo i successi, solo “chi ce la fa”.
A serie finita, questo è ancora vero, ma solo in parte. Certo, dopo la morte di Gordon speravo ingenuamente che per gli altri tre ci potesse essere una riconciliazione totale, un andare verso il tramonto con la testa piena di idee rivoluzionarie. Anche qui speranze deluse, perché Joe e Cameron si lasciano, incapaci di portare avanti una relazione che entrambi vorrebbero, ma in nome della quale non sono disposti a concedere cambiamento della propria natura (e meno male, aggiungerei). L’ultima inquadratura insieme, con quel muro che li divide in modo così netto e significativo, all’interno di un luogo che era stato di intimità fino a pochi minuti prima, è cinema di primissima qualità.
E per buona parte del finale non si vedono grosse speranze nemmeno per Donna e Cameron, anche loro desiderose di una riconciliazione, ma allo stesso tempo consce delle difficoltà che hanno sperimentato in passato e che probabilmente continuerebbero a incontrare in futuro. Già che parliamo di scene memorabili, citiamo subito l’eccezionale riflessione sul futuro che le due fanno nei vecchi spazi di Mutiny, ragionando su una nuova possibile partnership dall’evocativo nome di Phoenix, la cui ipotetica parabola viene immaginata e sviscerata come puro gioco mentale, un gioco in cui la continua riproposizione dei problemi che le due hanno sperimentato nel corso degli anni arriva a far fallire non solo i loro progetti reali, ma perfino quelli immaginari. E qui il cui logo immaginifico si spegne sopra le loro teste con la stessa rapidità con era comparso, come la lampadina di un’idea che si accende solo per rompersi pochi istanti dopo.
Eppure, nonostante i protagonisti di Halt and Catch Fire non riescano ad esaudire (se non in minima parte) i desideri che avevano implicitamente espresso fin dal pilot, il finale di serie è tutt’altro che pessimista. Non solo perché si chiude su sorrisi invece che su lacrime, ma perché sono gli stessi personaggi a comprendere, finalmente, certe molle fondamentali del loro agire.
Quando Donna compie il suo discorso pubblico in cui riconosce il valore di Cameron e si scusa con lei, esprime alcuni concetti precisi sulla natura effimera del futuro e del reale successo, quanto mai pericolante in un mondo in cui puoi diventare obsoleto da un giorno all’altro (un po’ come successo a Yahoo, che nel finale di Halt è invece il gigante che vince tutto), e sottolinea per converso l’importanza di ciò che accade durante il lavoro: le persone che si incontrano, l’energia che ci si mette, l’amore che si riesce ad esprimere per ciò che si fa.
In un finale orgogliosamente femminista, esplicito ma non polemico, semplicemente egualitario, Donna e Cameron sono il culmine di un processo iniziato con Joe e Gordon, le uniche due rimaste che hanno ancora voglia di provarci. Quel “I have an idea” con cui Donna comunica a Cameron la volontà di lavorare ancora insieme, dopo la precedente presa di coscienza che probabilmente falliranno ancora, la dice lunga sull’importanza che in Halt riveste la passione e la voglia di fare, ben oltre le più o meno probabili chance di successo.
In fondo lo dice anche il titolo della serie, quel “Halt and Catch Fire” che in informatica, e cito testualmente wikipedia, rappresenta “un’istruzione fittizia del linguaggio assembly – intesa prevalentemente come uno scherzo – che è stata usata per definire istruzioni solitamente non documentate che portano la CPU in uno stato da cui può essere fatta uscire solo con un reset.” Un titolo che dunque rimanda alla ricorsività e al blocco, un “fermati e prendi fuoco” che ben rappresenta l’ostinazione di chi fallisce e si rialza, fallisce ancora e si rialza ancora. Che però non è solo un don’t stop believing, un’esortazione che mantiene ben salda l’importanza del successo, celebrando la pazienza necessaria per raggiungerlo. No, qui la sfumatura è diversa, e celebra non tanto l’esaudimento del sogno, quando la sua semplice esistenza, e l’esistenza di persone con cui condividerlo.
Simbolo di questa nuova sfumatura è proprio Joe, quello che più di tutti comprende infine i propri limiti (lui che credeva di non averne) e accetta di dover cambiare percorso: smette di credersi il nuovo Steve Jobs, e comprende finalmente che per lui ciò che conta davvero non sono le idee di per sé, quanto ciò che possono evocare e risvegliare, la sensazione che dà il sentirsi parte di un processo creativo. Per questo la sua strada si sposta verso l’insegnamento, dove Joe può fare, con un bel sorrisone finale, ciò che è sempre stato il cuore della sua esperienza: ispirare altri a dare il meglio di sé, illuminare la via altrui prima ancora che la propria.
È un finale ottimo, emozionante e commovente, per una delle serie tv migliori degli ultimi anni, forse proprio per questo a costante rischio-cancellazione. Perché se i computer non sono il punto, ma uno strumento per arrivare al punto, è altrettanto vero che per molti spettatori casuali è stato difficile guardare oltre la patina vintage e l’apparente interesse per un tema fin troppo di nicchia.
Ma chi si è lasciato affascinare da Halt e l’ha seguita fino in fondo, sa benissimo cosa c’è oltre agli schermi, alle tastiere e alle fiere di elettronica: c’è un’intera visione del mondo, che parte da un sogno americano in cui se ti impegni al massimo ce la fai sicuramente, passa dalla scoperta che… non è affatto vero, e arriva a capire che i sogni hanno valore non quando diventano ossessione da cui escludere tutto il resto, ma solo quando diventano capaci di includere, idee, persone, sentimenti, in un viaggio per il quale, anche se magari non arrivi alla meta, sarà comunque valsa la pena.
Grazie Halt, abbiamo capito e ci applicheremo.
PS
Il fatto che non abbiano trovato spazio nel mio accorato saluto, non significa che non abbia visto e amato la Carol Kane di Unbreakable Kimmy Schmidt nei panni dell’indovina fuori di testa, o il tentativo (anche lui fallimentare) di Haley di invitare fuori la cameriera di cui era invaghita, e tutta un’altra serie di dettagli, citazioni e rimandi che hanno impreziosito un finale che meriterebbe ben più di un solo articolo. Non c’era spazio per tutto, ma l’abbiamo visto e assorbito comunque. Lo dico per Christopher Cantwell e Christopher C. Rogers, creatori della serie, che sicuramente leggeranno questa recensione. Oh, grazie ancora eh.