Fairly Legal di Marco Villa
Tutte le emozioni del patteggiamento
Prima di vedere un pilot, ho sempre un mio pregiudizio.
Per Fairly Legal era decisamente negativo, tanto che, nella mia testa, già pregustavo uno sfacelo tipo Off the Map.
Invece no, Fairly Legal si piazza in quella zona grigia che sta tra il “beh, dai, non è male” e il “però neanche sto capolavoro, eh”. Ovvero un grado di piacere/dispiacere che è la perfetta anticamera a: “adesso cosa scrivo?”. E intanto 500 battute sono andate.
Partiamo allora dalle cose di base. Fairly Legal è in onda su USA Network dal 20 gennaio. Creata da Michael Sardo, la serie racconta le vicende di Kate Reed, avvocatessa che lavora nell’importante studio legale del padre. Alla morte del genitore, viene presa da un raptus: si scancella dall’albo degli avvocati e diventa mediatrice. Ecco, prima di vedere il pilot, questo era tutto ciò che sapevo e francamente questa svolta nella vita di Kate non mi pareva essere così dirompente e interessante da costruirci intorno una serie.
Infatti, in parte è così. Prima di tutto: cos’è un mediatore? È quello che tratta i patteggiamenti, per trovare accordi tra le parti ed evitare che si arrivi in tribunale. Quindi una figura che, nel corso di decenni di thriller legali e telefilm americani avvocatizi, abbiamo identificato con il male: accettare un patteggiamento è sempre stato un rinunciare alla verità, alla lotta retorica tra avvocati. E invece no, Fairly Legal ci insegna che il patteggiamento è una figata, una cosa che tutti dovrebbero provare almeno una volta nella vita. Perché nelle aule di tribunale sono tutti così ingessati e pallosi, invece nelle sale degli studi legali tutto cambia. Un’atmosfera di freschezza e simpatia, che porta tutti a capire le necessità della parte avversa e a contenere le proprie richieste. Infatti Fairly Legal è toccata da quella piaga che è il ravvedimento miracoloso, ovvero un improvviso cambio di atteggiamento da parte del personaggio cattivo, compiuto a uso e consumo di uno sceneggiatore con scarsa propensione allo sviluppo dei personaggi. In più, c’è tutto il retroterra morale del fatto che Kate rinuncia a una carriera di grandissimo successo per dedicarsi a dare felicità e soddisfazione a tutte le persone e che palle ‘sti pipponi.
Ma allora cosa c’è di bello in questa serie? Tre cose. La prima è la protagonista. Sarah Shahi è bellissima di suo ed è perfetta nel ruolo di Kate. Personalmente ho un debole per lei dai tempi in cui vestiva i panni della rude poliziotta in Life, serie che avrebbe meritato maggior fortuna, ma in molti la ricorderanno per la parte di Carmen in The L Word. Kate è un bel personaggio, scritto bene e interpretato ancora meglio: sempre attaccata al telefono, nevrotica ma sorridente, battute all’altezza e caratterizzazione da ritardataria e – in generale – da non adatta al ruolo, che la rende sia simpatica, sia insostenibile. Personaggio non scontato, quindi. Il secondo aspetto sono i dialoghi: la linea comico-acida è ottima, un po’ meno quella legale, ma nel complesso si è su buoni livelli e ottimi ritmi. Infine: per come è girata e fotografata, Fairly Legal sembra una serie inglese, di quelle fatte bene. Il fatto che appaia di gusto british non è in sé un valore positivo, ma la scelta di non andare sul banale e sullo scontato a livello visivo (si veda Body of Proof) è decisamente apprezzabile.
Previsioni sul futuro: tante mediazioni per Kate, con in più una leggerissima narrazione orizzontale che male non fa.
Perché seguirlo: per Sarah Shahi e per un ritmo capace di tappare le falle di un concept in sé non eccelso.
Perché mollarlo: per il concept in sé non eccelso, perché il bello delle serie legal è lo scontro tra avvocati, mentre l’obiettivo della protagonista è evitarli. Un po’ di masochismo negli autori, non trovate?
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