Mr. Mercedes season finale: quei sapori di una volta di Diego Castelli
Una serie che ha trovato l’atmosfera giusta
SPOILER SUL FINALE DI STAGIONE
Negli ultimi tempi l’influenza di Stephen King sul mondo dell’audiovisivo si è fatta più pressante. Non che prima non fosse così, visto che sono quaranta e passa anni che il maestro letterario del brivido titilla la fantasia di produttori e registi, generando una vasto ventaglio di opere che vanno dal capolavoro alla ciofeca. Di recente però, fra gli IT, i The Mist, gli Under The Dome, i 22/11/63 e chi più ne ha più ne metta, le opere del Re sono tornate a essere importante carne da racconto cinematografico e seriale, ancora una volta con risultati altalenanti.
Per fortuna oggi non c’è spazio per gli imbarazzi, perché la prima stagione di Mr. Mercedes ci ha pienamente soddisfatto. E per spiegare il motivo farò una cosa teoricamente scorrettissima, cioè tirerò in ballo la scrittura di Stephen King pur non aver letto il romanzo specifico da cui la serie è tratta.
Credo però che non serva aver letto proprio quel libro, per parlare di una sfumatura tipicamente kinghiana che l’esperto David E. Kelley ha colto benissimo e riproposto nel migliore dei modi.
Per dirla in breve si può parlare di calore, e di umanità. Pur essendo, come detto, l’incontrastato maestro del brivido letterario, e pur essendo famoso anche a chi non ha mai letto nulla di suo come uno scrittore “horror”, Stephen King ha sempre inserito nella sua scrittura una forte cifra umana, una familiarità di provincia che impregna le sue opere con un tepore nostalgico e malinconico, ancora più forte quando viene messo a contrasto con la violenza e la paura. È il calore che ha permesso al nuovo film di IT, pur con qualche forzatura, di assomigliare più a I Goonies che a Paranormal Activity, ed è il calore che King non ha mai trovato nello Shining di Kubrick, tanto da riconoscerne i meriti cinematografici bocciandolo però nel merito del processo di trasposizione.
Ecco, io non ho ancora letto Mr. Mercedes, ma ci metto la mano sul fuoco che quel calore si trovi anche lì. E il maggior pregio di Mr. Mercedes (la serie) è quello di generare lo stesso calore.
Libera dalla classica gabbia investigativa del whodunit (non dobbiamo scoprire il colpevole, perché è chiaro fin da primo episodio) Mr. Mercedes mette in scena uno scontro di menti e di determinazioni, stando bene attenta a evitare che quello stesso scontro e, per conseguenza, la sua risoluzione siano l’unico fuoco della storia.
Non solo non è così, ma anzi quello che davvero ci piace di Mr. Mercedes sta altrove. Per esempio nella costruzione del personaggio di Bill, magistralmente interpretato (anzi, incarnato) da un Brendan Gleeson che con la sua faccia dura ma paciosa ci trasmette sia il senso di affaticamento e spossatezza del pensionato, sia la burbera simpatia del vicino di casa brontolone, sia l’acuta ferocia del segugio poliziesco che non rinuncia alla sua preda nemmeno quando sembra ormai svanita nel nulla.
Accanto a Bill si muove un sottobosco di personaggi (la vicina di casa, la famiglia della proprietaria della Mercedes, l’aiutante giovane ed esperto di computer) che in breve tempo creano un senso di comunità, di vicinanza, di gruppo. Nessuno di loro è un eroe nel senso classico del termine, sono anzi tutti danneggiati, imperfetti, sfiancati da questo o quel problema, ma proprio per questo sono deliziosamente umani, figure con cui costruire un’immediata empatia.
E dall’altra parte c’è un giovane assassino, interpretato dallo sguardo folle di Harry Treadaway, che vive esattamente all’interno di quella comunità. Mr. Mercedes dunque non fa eccezione nel mettere in scena uno dei temi classici di King, cioè l’orrore che si nasconde perfettamente dentro la normalità della cittadina di provincia, in cui l’impiegato di un negozio di elettronica è in grado di avere dei colleghi, degli amici e perfino dei bambini a cui vendere il gelato, nascondendo però una macabra oscurità.
L’ultimo episodio, che arriva alla fine di un percorso in cui molto tempo è stato dedicato a raccontare e sottolineare l’assoluta normalità di molti dei personaggi (si pensi anche solo alla sigla, sempre uguale eppure costruita con immagini sempre diverse, a trasmettere la banale quotidianità di Bill anche nei giorni della sua strenua lotta contro Brady), è la perfetta chiusura di una trappola in cui la buona volontà dei protagonisti ha funzionato da anticorpo per il virus-Brady.
Vedere Lou pugnalata ci ha fatto ben più male che assistere a un generico atto di violenza, proprio perché più forte è il contrasto fra quelle coltellate e l’amicizia che Brady aveva dimostrato di provare per lei. Così come è entusiasmante concedere a Holly la possibilità di chiudere la partita, proprio lei che a causa di Brady ha subito molti lutti, e che ora può far uscire tutto a colpi di mattone.
Ma l’ultima scena è comunque tutta per Bill, l’eroe imperfetto a cui viene un infarto sul più bello, una figura opposta rispetto al divo muscolare che si allontana spavaldo dalle esplosioni che ha provocato. Bill è un povero vecchio che invece di andarsene a cavallo o in moto viene portato via in carrozzina, ma che non per questo rinuncia a un’ultima promessa: finché il male non sarà completamente debellato, finché ci sarà anche solo una possibilità che l’odio possa tornare, lui rimarrà lì a vigilare, e per quanto questa promessa possa suonare vana agli occhi di spettatori che vedono chiaramente la fragilità di chi la pronuncia, proprio il fatto che venga pronunciata sancisce un sentimento a cui non è possibile sottrarsi: noi a Bill Hodges possiamo volere solo bene. Per una prima stagione è più che sufficiente.