Game of Thrones stagione 7: qualche riflessione pre-finale di Diego Castelli
Bisogna prepararsi bene
Fra due giorni andrà in onda l’ultimo finale di stagione di Game of Thrones. Ultimo nel senso che il prossimo, quello del 2018, non sarà un finale “di stagione”, bensì “di serie”, e si porterà dietro tutto il suo corollario di vesti strappate e immediate nostalgie.
Ma non siamo ancora a quel punto. Siamo invece alla fine della settima stagione, sette episodi tutt’altro che banali che in queste settimane, fra polemiche e leak più o meno orchestrati da HBO (la verità non la sapremo mai), hanno diviso e fomentato i fan come mai in passato, nonostante la caldazza e la necessità, per molti, di dar vita al chiacchiericcio seriale direttamente da sotto l’ombrellone.
In queste settimane tutti hanno detto tutto, tanto che pensavo di limitarmi a un unico commento finale che chiudesse in maniera più seria una stagione che finora abbiamo raccontato sotto la forma dei riassunti in versi (che comunque ci saranno anche per l’ultimo episodio, ci mancherebbe altro). Mi rendo però conto che non si può, sarebbe troppa roba. Il finale di stagione, comunque andrà, avrà bisogno di un’attenzione particolare, che cozzerebbe con le molte interessanti riflessioni che sono state fatte in questa calda estate invernale.
Quello che vorrei fare qui è dunque una specie di punto della situazione – un po’ di ordine, se volete – perché pur nel relax vacanziero ho avuto la netta impressione che sui sei episodi già andati in onda siano state dette cose anche interessantissime, ma che hanno spesso mescolato due diversi ordini di ragionamento, che invece andrebbero divisi.
E allora sai che c’è? Faccio anche i titoli diversi, via.
Quando Hollywood arrivò a Westeros
La prima questione da affrontare è quella generale, difficilmente negabile e sotto gli occhi di tutti. Nel corso delle stagioni, ma soprattutto con la settima, Game of Thrones si è progressivamente allontanata da alcune sue caratteristiche iniziali, dirigendosi verso territori che ai puristi sono sembrati, e stanno sembrando, un tradimento delle origini.
Gli slogan li conosciamo: “non muore più nessuno”, “è diventata una telenovela”, “meno tette e più draghi”, cose così.
In buona sostanza, al mancare della base letteraria di George Martin, quello che all’inizio era un fantasy crudo, violento, sorprendentemente politico e “realistico”, calibrato al millimetro di ogni sillaba, è diventato uno show via via più popolare, spettacolare, veloce, meno sanguinoso e più roboante, concentrato su un numero via via minore di protagonisti “veri”, senza l’ingresso di nuove figure a sostituire i cadaveri eccellenti.
I motivi di questa sterzata hanno probabilmente poco a che fare con l’arte e molto con il calcolo economico-produttivo, adattare cioè lo stile della serie a un pubblico che, rispetto alle esordi, si è decuplicato e massificato. Questo, ovviamente, ammesso e non concesso che in una serie tv arte e commercio possano e debbano essere separati, argomento per il quale servirebbe un libro dedicato.
La questione più immediata e “calda”, comunque, riguarda il fatto che questa lenta ma decisa virata abbia rovinato o meno la bellezza di una serie che fin da subito si era imposta per certe sue vistose peculiarità, di cui ora molti denunciano la scomparsa.
La mia risposta, giusto per essere chiari, è “no, non l’ha rovinata”. E questo per diversi motivi.
Il primo è strettamente narrativo: per anni, Game of Thrones ha costruito un intero mondo fatto di casate, eserciti, territori, guerra e politica, e l’ha fatto sia guardando verso l’interno (la corsa al trono di spade) sia verso l’esterno, con la minaccia dei mostri al di là della Barriera. Il progressivo delinearsi di nuove fazioni e alleanze è stato per anni il succo gustoso a cui ci siamo abbeverati, ma per sua natura una storia del genere, tanto più se consideriamo il continuo mantra del winter is coming, punta effettivamente verso un finale netto e dichiarato, un punto cruciale in cui far convergere tutto.
La critica più frequente alle scorse stagioni era sempre la stessa: “non succede niente per tot episodi, e poi ne piazzano uno così figo che tutti si dimenticano della pochezza dei precedenti”. Giustificata o meno che fosse, questa critica assai diffusa era il sintomo di una frustrazione che la stessa trama aveva generato, e che queste ultime due stagioni vogliono evidentemente cancellare: in questa settima stagione è successo di tutto, in continuazione, e non c’è mai stato un attimo di respiro.
Puntuale, ovviamente, è arrivata la critica opposta: succede troppo, è tutto troppo veloce, e poi non muore più nessuno ecc ecc.
Al che io però mi chiedo: questi cambiamenti, o almeno alcuni di essi, non erano forse inevitabili? Nel momento in cui si vuole dare una conclusione alla storia, come si può mantenere la stessa atmosfera sospesa delle precedenti stagioni, la stessa suspense galleggiante fatta di pressione sui confini, trattative e sotterfugi? La risposta è semplice: non si può. Quando l’inverno arriva, quando i non morti si preparano all’assalto finale, quando Daenerys Targaryen arriva finalmente a Westeros per riprendersi ciò che è suo, alla suspense deve subentrare l’azione, non è più tempo di parola e promessa, ma di spada e battaglia.
Trovo che, in questo senso, l’all-in di Benioff e Weiss sia insieme furbo e coraggioso. Furbo perché rendere Game of Thrones più semplice e popolare ne aumenta il successo e il ritorno economico, e coraggioso perché una mossa del genere sembra fatta apposta per far incazzare i fan della prima ora. Ma anche loro devono pur riconoscere che a un certo punto, dopo sei anni di preparativi, i nodi devono venire al pettine.
Ulteriore motivo del mio favore per questa sterzata sta nel fatto che grazie ad essa Game of Thrones ha anche spostato il proprio raggio d’azione, acquisendo una rilevanza televisiva nuova e diversa da quella che già aveva. Se infatti nelle primissime stagioni GoT era già visivamente imponente, il suo successo veniva tutto dalla sceneggiatura, dai dialoghi sottilissimi, e dalle famose morti a sorpresa che sono diventate ben presto marchio di fabbrica (come già lo erano nei romanzi). Ma questo non poteva valere per otto anni filati. Dopo cinque o sei anni, quegli elementi fanno inevitabilmente meno sensazione, perfino quei decessi improvvisi che ormai, paradossalmente, vengono attesi e previsti, tanto che la sorpresa non riguarda più cosa accade, bensì a chi.
Già con la stagione passata, e ancora di più con questa che sta per concludersi, Game of Thrones è diventata rilevante per un altro motivo, cioè il suo sconfinamento nel cinema. Al momento non c’è, nel panorama televisivo mondiale, una serie che possa permettersi ciò che Game of Thrones è in grado di mostrare. E parlo di cose concrete, di effetti speciali, di draghi, di lande ghiacciate, di orde demoniache, di battaglie gigantesche, di location ampie e vertiginose. Un po’ per disponibilità economiche, e un po’ per semplice bravura, Game of Thrones è in questo momento la sola serie che possa contendere al cinema l’unico vero primato che ancora gli rimane, cioè quello della pura potenza visiva. Ed è ovvio che la virata spettacolare messa in campo da Benioff e Weiss ha anche questo scopo, quello cioè di sfruttare la fama e il denaro raccolto in questi anni per mettere in scena cose che in tv, per dirla molto banalmente, non si erano mai potute fare.
La potenza è nulla senza controllo
Se non siete d’accordo col paragrafo precedente, se pensate cioè che la virata epico-spettacolare di Game of Thrones non fosse né necessaria né auspicabile, beh, non ci rimane che la rissa, e amen.
Ma se pure siete d’accordo con la decisione degli autori, non è ancora tempo di rilassarsi, perché dal campo macro si passa a quello micro, dalle grandi direttrici su cui orientare lo sviluppo di Game of Thrones si passa alle singole scelte di scrittura e di regia che danno corpo a quella (nuova) visione d’insieme. E anche su questo punto, benché come detto in modo a volte confuso con la tematica precedente, non sono mancate le polemiche, con particolare riferimento al penultimo episodio stagionale.
Un problema su tutti è diventato simbolo di un certo nervosismo: la gestione del tempo. Fra le critiche più frequenti mosse in questi giorni c’è una gestione allegrotta del tempo e delle spazio, con personaggi, uccelli e draghi che coprono in brevissimo tempo spazi che nelle stagioni precedenti parevano insormontabili. E via con le mappe di Westeros in mano per far vedere che un corvo e un drago non avrebbero mai potuto percorrere due volte quella distanza nello spazio di una notte.
Difficile negare l’incoerenza, di fatto ammessa anche dagli stessi autori. Più difficile dire quale dovrebbe essere il peso di elementi come questo nel giudizio complessivo. Ed è su questo terreno fangoso e scivoloso che si basano le dispute più accese, perché a fronte di un certo numero di oggettivi elementi di indagine, le interpretazioni soggettive sono potenzialmente infinite.
Personalmente, non sono stato disturbato dalla questione dello spazio e del tempo, quanto piuttosto dalle motivazioni un po’ a cazzo di cane per le quali la squadra speciale comandata da Jon Snow supera la Barriera, e soprattutto dall’arrivo di zio Benjen. Su quest’ultima scena mi soffermo perché mi pare la più significativa: l’arrivo di zio Benjen a salvare Jon è di una goffaggine abbastanza comica. Ma lo dico senza livore, più con una specie di affetto: in quella scena si vede chiaramente all’opera la dinamica del paragrafo precedente, cioè il tentativo, da parte degli autori, di prolungare una scena già spettacolare (il salvataggio dei poveracci da parte di Daenerys) con un ulteriore codino di suspense, in cui Jon rimane isolato, viene dato per disperso, ma riesce a tornare da solo, giusto in tempo per far fremere d’amore una Daenerys che ormai se lo mangia con gli occhi. La decisione di creare queste emozioni è evidentemente la base di partenza su cui è stata costruita una successione di eventi che avrebbe dovuto sostenere quelle emozioni in una cornice di plausibilità. Cornice che però viene meno perché l’idea di ripescare zio Benjen è semplicemente debole.
A questo punto però la domanda è: in presenza di questi e altri elementi zoppicanti, a cui sarebbe anche il caso di unire la prevedibilità di certi risvolti (come la trasformazione del drago), ci siamo annoiati? Abbiamo perso interesse? Ci è venuta voglia di mollare tutto dandoci al giardinaggio?
No, tutt’altro: siamo impazziti al tocco delle mani fra Jon e Dany, e siamo saltati in piedi alla comparsa dell’occhio azzurro del drago, anche se ce lo aspettavamo da mezz’ora (o forse da tutta la stagione, a guardare certi fan poster).
Quindi come la mettiamo?
Alla ricerca di un nuovo equilibrio
La mettiamo che Game of Thrones, in questo suo rettilineo finale in cui si cerca di chiudere le decine di storie costruite nei sei anni precedenti, è alla ricerca di un nuovo equilibrio. Quello precedente era fatto di scrittura quasi sempre inattaccabile, in cui però sorgeva il rischio di una certa staticità a cui si cercava di porre rimedio con singoli strappi, violenti e spesso apprezzatissimi (dal Red Wedding alla Battaglia dei Bastardi, che comunque fa già parte della GoT più epica).
Il nuovo equilibrio, più tradizionalmente televisivo, punta invece a un’azione più densa, a un ritmo più serrato, e a un carico visivo ed emozionale debordante in nome del quale – rovescio della medaglia – si rischia di incappare in forzature e scivoloni.
Fra gli spettatori di Game of Thrones, i più fortunati sono quelli che stanno riuscendo a passare da un equilibrio all’altro senza perdere entusiasmo, beandosi dei progressi tecnici e trovando nell’affetto pluriennale per i personaggi e nella curiosità per la loro sorte la forza di appassionarsi a elementi che sono in parte nuovi e/o trattati in modo diverso. Noi probabilmente facciamo parte di questo gruppo. Tutti gli altri spettatori, meritevoli di rispetto quanto i primi ma che reputo “sfortunati” perché la serie da loro amata sembra essere almeno in parte sparita, devono fare i conti con una frustrazione che nasce, più che da una sopraggiunta incapacità degli autori, da un esplicito cambio di paradigma, che gli ha portato via ciò che amavano sostituendolo con qualcosa a cui non riescono ad abbandonarsi.
Certo, poi c’è chi dice “si poteva anche cambiare la serie, ma senza commettere quegli errori grossolani”. Un’obiezione legittima, a cui però si risponde con “sti cazzi”.
A questo punto non ci resta che goderci l’ultimo episodio stagionale, per vedere se sarà in grado di riavvicinare le due nuove fazioni in lotta (magari unendo spettacolo e sorprese più coerenti, morti eccellenti e battaglie campali), o se invece aumenterà la forbice fra i puristi sdegnati e i fan senza se e senza ma.
Per parte mia, dico solo una cosa: se Dany e Jon limonano, io sto già a posto.
Che vuoi fare, sono un ragazzo semplice…