La nuova Twin Peaks, l’hype e il ricordo: cosa è lecito aspettarsi, e cosa no di Diego Castelli
Appuntamento alla Loggia
Stanotte ho fatto un sogno.
Ero in una stanza grande e vuota, con pochi mobili, pesanti drappi rossi al posto delle pareti, e nessuna finestra.
Ero seduto su una poltrona, molto più vecchio di come sono ora, e guardavo uno strano ometto dallo sguardo furbo che parlava con voce strana, come se le parole gli uscissero al contrario, pur essendo comprensibili.
Accanto a me c’era una bella ragazza, che a un certo punto si è chinata verso il mio orecchio, sussurrando: Devi scrivere un pezzo su Twin Peaks prima che arrivi la nuova stagione, e dovrà essere un pezzo lungo, di quelli che nessuno legge fino in fondo, ma che ti farà sentire in pace con te stesso, come se avessi fatto il tuo dovere.
Quando mi sono svegliato ho acceso subito il computer, e mi ci sono seduto davanti munito di tazza di caffè e torta di ciliegie. Ho anche pensato di accendere il camino, ma quando ho avvicinato un fiammifero al ceppo che c’era dentro, il ceppo ha detto “e se poi il fuoco cammina con te?”
I ceppi non mi avevano mai parlato prima, così mi sono spaventato e ho rinunciato, mettendomi subito a scrivere…
NON SO SE DEVO SPECIFICARLO, COMUNQUE CI SONO DEGLI SPOILER SU UNA SERIE DI 27 ANNI FA.
C’è questa specie di regola non scritta per cui i grandi capolavori sarebbero “intramontabili”, nel senso di “incapaci di invecchiare”.
Una cagata pazzesca, per citare un classico intramontabile che parla di un altro classico intramontabile. Tutto invecchia, nell’arte come nella vita, e questo vale anche e forse soprattutto per la narrazione audiovisiva, una cosa di cui abbiamo tutti una consapevolezza molto precisa: basta vedere l’effetto diversissimo che ci fanno le grandi canzoni del passato e i videoclip che le accompagnavano al tempo dell’uscita.
È chiaro che lo stesso termine “invecchiare” può avere diverse accezioni, ed è altrettanto ovvio che ciò che è vecchio per uno spettatore può non esserlo per un altro. Ma il discorso qui è generale: è impensabile che un prodotto culturale abbia lo stesso identico effetto su generazioni sempre più lontane, ed è del tutto ragionevole che una buona quota dei fruitori più recenti percepisca come antiquato un prodotto che – splendido paradosso – diventa tale proprio in virtù della sua capacità di influenzare la sua arte di appartenenza, che replicando e modificando le sue forme migliaia di volte trasforma il capostipite in qualcosa di già visto o, quantomeno, primitivo.
Questo discorso sul mutamento della percezione, sia ben chiaro, prescinde completamente dal concetto di valore storico. Studiare il cinema, la letteratura, la musica o qualunque altra forma d’arte non significa farsi piacere tutto ciò che è stato prodotto e già apprezzato da altri. Significa invece immergersi in un percorso di eventi e opere e comprendere il ruolo di ognuno di essi, scoprire chi ha inventato nuove forme, chi ha rielaborato quelle vecchie, e imparare dove sono nati tutti gli sguardi e le visioni che ci piacciono.
Capire i figli studiando i nonni.
Per questo, giusto per fare un esempio, posso anche dire che 2001 Odissea nello Spazio non mi è mai piaciuto, l’ho sempre trovato mortalmente noioso. Ma se questo è il mio gusto, di per sé insindacabile, sarei invece particolarmente pirla se cercassi di negare il valore di quel film all’interno della storia del cinema, che da quel paio d’ore abbondanti ha tratto insegnamenti e spunti pressoché infiniti, con cui tutta la fantascienza successiva ha in qualche modo dovuto fare i conti.
E adesso parliamo di Twin Peaks.
Il prossimo 21 maggio arriverà il seguito di uno dei capisaldi della moderna narrazione televisiva, un ritorno che è probabilmente l’apice della frenesia nostalgica di questi anni, quel continuo rimestare nel passato che ha dato vita a un concentrazione di remake, reboot e sequel come forse non si era mai vista prima, sia al cinema che in tv.
Una moda, se così possiamo chiamarla, nata da un serie di fattori concatenati che attengono sia alla sfera creativa sia a quella economica, ma che ovviamente non è stata ricetta di sicuro successo: in questi anni abbiamo visto remake orridi e subito morti (che ne so, Knight Rider, Charlie’s Angels), reboot di qualità scarsotta ma buon successo commerciale (MacGyver), rilanci sorprendenti (Fargo, Bates Motel), e perfino deviazioni strane e ibride (come Stranger Things, che non è il remake di niente ma sembra il remake di tutto).
Il sequel di Twin Peaks, che forse possiamo considerare semplicemente una terza stagione arrivata un quarto di secolo dopo la seconda, rappresenta il superamento di un confine: se nemmeno un mostro sacro come Twin Peaks è immune alla frenesia riciclatoria, viene da pensare, allora niente lo è. E come è ovvio si scatena un dibattito ancora più aspro del solito, fra chi vede all’orizzonte un delitto di lesa maestà, e chi invece viene rinfrancato dalla consapevolezza che la squadra è ancora quella, da David Lynch in giù, e dal fatto che effettivamente Twin Peaks un finale come si deve lo aspetta da venticinque anni.
Con la premiere alle porte, la domanda allora diventa legittima, se non necessaria. Cosa ci dobbiamo aspettare? Cosa potrà darci la nuova Twin Peaks e a cosa invece è meglio rinunciare fin da subito, per non rimanere delusi? E non parlo di dettagli di trama, parlo di emozioni e pensieri.
Per riprendere il discorso iniziale, Twin Peaks è una di quelle opere il cui valore storico è indiscutibile. Che piaccia o meno, ha fatto la storia della tv, diventando spartiacque fra un prima e un dopo, come solo le serie più significative hanno saputo fare, arrivando coi tempi e modi giusti per spaccare tutto (l’elenco di queste serie sarebbe dibattibile, ma comunque ristretto a una decina di titoli negli ultimi trent’anni, forse anche meno).
Chi non ha vissuto dal vivo quel momento, perché non c’era o era comunque troppo giovane (come il sottoscritto), probabilmente fa fatica a coglierne la portata. Ma basta documentarsi un poco per rendersi conto di quanto Twin Peaks fosse diversa da quasi tutto quello che l’aveva preceduta, per lo meno nel contesto della televisione generalista americana, e di come la sua lezione sia stata mandata a memoria da decine di altri prodotti successivi che, pur non avendo intenzione di “copiarla”, non hanno comunque potuto prescinderne, riconoscendo in lei il momento fondamentale in cui qualcuno disse “sì, anche in tv è possibile sperimentare come al cinema” (una presa di posizione di cui oggi godiamo ben volentieri i frutti).
Twin Peaks racchiudeva al suo interno un numero sorprendentemente alto di generi – dal crime al mistery soprannaturale, dalla soap opera alla comedy più surreale – e scatenò in brevissimo tempo un’attenzione quasi morbosa. Un’attenzione che andava dalla curiosità internazionale per la verità sull’omicidio di Laura Palmer (la cui risoluzione intempestiva nella seconda stagione, dovuta a pressioni della rete sugli autori, rimane l’errore più grosso e riconosciuto dell’intera serie) alla miriade di dettagli piccoli e grandi che si fecero strada nel cervello degli spettatori per non lasciarli mai più, in una forma di viralità pre-internettiana a cui mancavano solo gli hashtag e gli spoiler su facebook.
Il tutto, di fatto, grazie alla sola prima stagione, o forse addirittura grazie al solo pilot, da molti considerato l’episodio migliore e che proprio in questo dà la cifra di una serie rivoluzionaria, ma allo stesso tempo così potente da bruciare rapidissima, come un cerino acceso in una stanza piena di gas. Un’esplosione che tutti ricordano, ma che non aveva il carburante per durare a lungo.
Ma se lasciamo da parte il ruolo di Twin Peaks nella storia della serialità, e proviamo per gioco a guardarla con occhi di oggi, vediamo che il tempo non ha risparmiato nemmeno lei. Come giudicheremmo il pilot di Twin Peaks, se dovessimo farne una recensione in questo momento, senza sapere nulla di lui e trattandolo come l’inizio di una serie del 2017?
Per quanto i fan duri e puri fatichino ad ammetterlo perfino con se stessi, di fronte all’odierna sensibilità (che lei stessa ha contribuito a forgiare) Twin Peaks appare lenta, spesso didascalica, recitata in maniera troppo caricata da buona parte degli attori. E per quanto alcuni di questi elementi fossero almeno in parte voluti e pienamente coerenti con lo stile di Lynch, le urla della madre di Laura sembrano comunque una roba da Occhi del Cuore. E lo stesso vale per i baci casti e puri, o per certe semplicità della trama, e perfino per il doppiaggio italiano che, se ancora non l’avete mollato, suona quasi medioevale.
Ma soprattutto, oggi Twin Peaks è assai meno inquietante di un tempo: nel 2017 spaventa forse la metà di quanto faceva nel 1990, e il numero di scene ancora disturbanti (come quelle nella sala d’attesa della Loggia Nera) riesce a stento a pareggiare quello delle sequenze diventate loro malgrado ridicole (Bob che compare dietro i mobili assomiglia sempre più a un tappezziere senzatetto).
Allo stesso tempo, di riffa o di raffa, Twin Peaks ha ancora oggi diverse frecce al suo arco, e malgrado certi suoi elementi appaiano vecchi, ce ne sono altri che restano ancora una specie di unicum: per esempio, si rimane tuttora stupiti dalla leggerezza con cui Lynch e soci passano dal crime più rigoroso al paranormale dichiarato (di fatto l’agente Cooper accumula indizi ma poi si affida a sogni e premonizioni) fino ad arrivare alla commedia purissima, in un intento parodico così “ a metà strada” che sarebbe rischioso e azzardato anche in una serie contemporanea. Come abbia fatto un prodotto del genere, così autoriale e metatestuale, ad arrivare su una rete generalista a inizio anni Novanta, quando il massimo della sperimentazione era Beverly Hills 90210, credo sia ancora un mistero per molti.
Se poi superiamo il livello delle macrostrutture, troviamo anche l’abilità programmatica eppure istintiva con cui Lynch e Frost hanno disseminato questa storia di immagini e concetti diventati immediatamente icone – personaggi assurdi, feticisti delle torte e dei caffè, segretarie invisibili, giganti altruisti e camerieri ottuagenari, anzianotte che parlano con pezzi di legno, nani ballerini, goffe storie d’amore fra colleghi, sigle da un minuto e mezzo in cui si vedono solo segherie – e che suona ancora come una coraggiosissima deviazione dallo standard.
Magari oggi la leggiamo in modo diverso, veniamo colpiti da elementi differenti, ma rimane il fatto che, anche nel nostro mondo iper-seriale, Twin Peaks suona ancora originale (o stramba, o tutte e due): e se una serie riesce a sembrare originale dopo ventisette anni, quando una valanga di autori successivi ammettono di averla presa a modello e ispirazione per le loro opere, vuol dire che le sue alchimie erano davvero qualcosa di magico e forse irripetibile.
Da qui il ragionamento sul ritorno dell’agente Cooper e di tutta la banda. Pensare che la nuova Twin Peaks possa essere dirompente come quella vecchia è da pazzi. Non lo sarà. Non potrà lasciare nel mondo televisivo il solco tracciato dall’originale, semplicemente perché un solco del genere non può essere tracciato da una cosa che esiste da un quarto di secolo. Nessuno, insomma, può fare la rivoluzione due volte. E se ce la facesse, beh, sarebbe un evento realmente epocale.
Ma se anche questo non fosse possibile, se la nuova Twin Peaks finisse con l’essere niente più che l’ennesima operazione nostalgia, ha comunque un’importante possibilità e responsabilità: quella di aggiornare le proprie forme, adattandole a una nuova contemporaneità, provando a dare agli spettatori di oggi, in larga parte abbastanza giovani da non aver vissuto l’originale al tempo della sua uscita, anche solo una vaga sensazione di ciò che Twin Peaks rappresentò per i suoi contemporanei.
Spaventare come la vecchia Twin Peaks non può più fare, stordire gli spettatori di oggi come l’originale stordì quelli di allora.
Pieni di rughe sul volto, ma allo stesso tempo liberi dalle inevitabili rughe del passato seriale, Lynch e soci hanno la possibilità di (ri)presentarsi davanti ai nuovi spettatori di 25-30 anni e dirgli “ora ti farò capire quello che tuo padre e tua madre provarono alla tua età, senza che tu debba più preoccuparti del fatto che il formato dell’episodio sia il vetusto 4:3”.
Se ci riuscissero anche solo in parte, infondendo in questo sequel abbastanza creatività ed emozione, sarebbe già un risultato eccezionale, e chi se ne frega se non sarà un’altra rivoluzione.
In realtà, Lynch ha già rimandato al mittente qualunque ipotesi di operazione-revival, lasciando intendere di aver nuovamente puntato a schiaffeggiare gli spettatori, piuttosto che ad avvolgerli nella confortevole coperta della nostalgia (per esempio, le ultime notizie sembrano suggerire l’assenza di una vera e proprio trama criminosa). Questo ci lascia ovviamente ottimisti sul fatto che non rimarremo delusi. O per lo meno sul fatto che, se saremo delusi, non sarà nel modo in cui ci aspettiamo.
Che poi, diciamoci la verità, nemmeno mi stupirei se Lynch avesse deciso di girare davvero in 4:3, giusto per prenderci per il culo. Ha costruito un’intera carriera così, a divertirsi col non-senso della vita e della realtà. Ti pare che possa smettere ora?
PS: la vecchia Twin Peaks ha ancora una colonna sonora della Madonna, ma quello ce lo siamo detti: la musica invecchia più lentamente.