The Walking Dead 7 season finale: era anche ora eh! di Diego Castelli
Che fatica arrivare fin qui, ma almeno la guerra è cominciata
Tanto tuonò che piovve, anche se ci ha messo una vita.
In occasione del settimo season finale di The Walking Dead, a distanza di poco più di cinque mesi dall’attesissima premiere in cui trovarono la morte Glenn e Abraham, i sentimenti sono contrastanti. Difficile infatti non essere entusiasti per uno degli episodi più riusciti e tamarri della stagione, ma è altrettanto difficile non ammettere che ci siamo arrivati troppo affaticati.
Nella 7×16 succede un po’ tutto quello che bramavamo da settimane. Il percorso di sacrificio di Sasha, già abbastanza evidente settimana scorsa, trova il suo definitivo compimento quando la donna, ben lungi dal voler diventare una nuova Eugene, si suicida nella bara messa a disposizione da Negan (ma perché poi? Per lo spettacolo!) così da potergli zompare addosso in versione zombie e spezzare l’impasse in cui i nostri erano incappati dopo il tradimento di Jadis.
Che poi diciamoci la verità: che non ci si potesse fidare di Jadis sembrava evidente anche a partire dal nome dell’attrice che la interpreta, Pollyanna McIntosh, sembra un computer polveroso uscito da un cartone per bambini, come fai a fidarti di una così? Tanto più che a un certo punto ha fatto pure la viscida con Michonne dicendole in faccia che voleva farsi Rick…
Comunque sia: i nostri sembravano di nuovo sconfitti, ma poi la sorpresa post-suicidio spiazza tutti e porta a una nuova ribellione, che però non è ancora abbastanza: Rick viene di nuovo reso inoffensivo, Michonne per un attimo sembra morta, e Carl sul punto di ricevere una bella carezzina da Lucille. E qui però arriva la cavalleria. Anzi la tigreria verrebbe da dire: intervengono Ezekiel con Morgan e tutto il cucuzzaro, con l’aiuto decisivo della tigre di Ezekiel che strappa a nega uno spassosissimo “A goddam tiger!”, che suona tanto come un “così non vale, non si era mai parlato di usare le tigri!”
È l’inizio delle guerra, quella vera, e la momentanea ritirata di Negan è solo la premessa di uno scontro finale e senza esclusione di colpi che ci lascia sì incuriositi, ma pure incazzati per il fatto che dovremo aspettare altri mesi ancora.
Non è nemmeno una critica da affrontare alla leggera. Sarebbe troppo comodo, infatti, elogiare questo season finale dicendo “finalmente la The Walking Dead che conosciamo”, perché nemmeno questo sarebbe troppo corretto: al netto dei morti, degli zombie e della violenza, infatti, The Walking Dead è sempre stata una serie di AMC, la stessa rete di Breaking Bad e Mad Men, e ha fatto della lentezza e della riflessività uno di marchi di fabbrica, cosa di cui spesso finiamo col dimenticarci. Voglio dire, non è che prima TWD fosse una serie “d’azione”, salvo poi prendersi una pausa.
Il problema, però, è cosa rappresenta quella lentezza, qual è la sua funzione narrativa e stilistica. In tutti questi anni, fra alti e bassi, The Walking Dead ha saputo essere una serie sorprendentemente silenziosa, in cui i rantoli degli zombie insinuavano il terrore nel corpo di personaggi rimasti soli al mondo, costretti a cavarsela in un deserto ostile. In questo contesto, una narrazione pacata e riflessiva è sempre stata convincente, perché permetteva la costruzione di tensioni che poi esplodevano o venivano comunque spezzate dalla tragedia di turno, spesso sorprendente e inaspettata.
Quest’anno il meccanismo ha funzionato meno, perché la meta era troppo chiara e troppo gustosa per non pretendere un’accelerazione che invece non c’è stata.
Non che la storia non avesse una sua logica, costruita com’era su tre semplici passaggi: Negan sconfigge Rick; Rick ha bisogno di tempo per trovare nuovi alleati e nuovi strumenti di lotta; Rick parte al contrattacco. Solo che ci sono voluti quindici fucking episodi per arrivare a questo momento, e la sensazione è che gli autori abbiano perso almeno in parte il polso della situazione, o non siano stati in grado, banalmente, di riempire questo spazio con contenuti abbastanza interessanti. Le nostre puntate gagliarde le abbiamo avute, alcuni personaggi hanno spiccato più di altri (Eugene, Morgan, la stessa Sasha). Ma la base del problema è un nemico troppo potente e troppo carismatico per poterlo usare col contagocce: uno come Negan pretende molto spazio, e se tu non glielo dai, per andare dietro al tuo collaudato ideale di lentezza e laboriosità, finisce che lo spettatore avverte un senso di frustrazione e comincia a sbuffare, dietro la promessa di un traguardo di sangue e devastazione che sembra a portata di mano e non arriva mai.
Per questo il season finale è gagliardo, e aiuta gli autori a spostare la guerra su una prossima stagione in cui, se non avessero avuto Negan, avrebbero dovuto inventarsi qualcosa di ancora meglio, e quando sarà il momento voglio proprio vederli (non so quanto i fumetti stiano aiutando in questo senso, ma insomma, sarà dura).
Allo stesso tempo, il fatto che la vendetta di Rick & Soci venga spostata di altri mesi ancora, quando tutti pensavano di poter vedere la questione risolta già quest’anno, lascia un po’ di amaro in bocca, un senso di sbrodolamento, come se questa stagione fosse stata di fatto una lunga parentesi fra la morte di Glenn e Abraham, e l’inizio della rivolta. Un po’ pochino.
Diciamo che avete messo alla prova la nostra fedeltà, brutti bastardi, ma noi siamo ancora qui. Ora vedete di far partire il degenero, perché all’ottavo anno riteniamo di aver ascoltato il giusto ammontare di pippe mentali. Ora vogliamo il sangue. Tanto, pesante, in tutti gli episodi. E dai dai dai.