Legion season finale: una serie da amare e proteggere di Diego Castelli
Tanta roba, e una bella chiusura del cerchio
ATTENZIONE, SPOILER SU TUTTA LA PRIMA STAGIONE DI LEGION!
Non so neanche da che parte cominciare per parlare del finale di Legion. Giuro, ho qui davanti lo schermo bianco e rimugino su quale sia l’angolatura migliore per inquadrare una delle migliori novità di quest’anno, una boccata di freschezza tanto nel mondo delle serie tv in generale, quanto in quello più specifico dei supereroi di celluloide (che poi oggi è tutto digitale lo stesso, ma dire “celluloide” ha tutto un suo fascino).
Sono passate otto settimane dal primo episodio, e poco è cambiato della nostra idea iniziale, se non il fatto che siamo ancora più convinti: Legion è una figata, e dopo Fargo Noah Hawley ha dimostrato che la sua non era solo passione per i Coen ben applicata e non replicabile, ma al contrario una cifra autoriale che gli ha permesso di cambiare radicalmente genere, mantenendo una visione particolare e riconoscibile, che fa sgranare gli occhi di noi poveri serialminder sempre a caccia di nuove chicche.
Ma andiamo con ordine. Nel season finale di Legion, dopo sette episodi passati in gran parte all’interno della testa di David a suggerire, delineare e spiegare il rapporto simbiotico e pericolosissimo fra il protagonista e il parassita che gli vive nella mente, Hawley e soci decidono che è il momento di tirare le somme e chiudere il cerchio di una narrazione spesso volutamente onirica e frammentata.
Ne esce l’episodio più lineare di tutta la stagione, che inizia con la convalescenza di Clark (giusto il tempo di vederlo fragile, affettuoso e determinato, in modo da rassicurarci sul fatto che lui non è il vero cattivo della serie), prosegue con la cattura e l’interrogatorio dello stesso Clark da parte di David e soci, e si chiude con l’”estrazione” di Farouk/Re delle Ombre da David, fino alla creazione di un nuovo, affascinante cattivo.
Trovo particolarmente importante, per una serie come Legion, sottolineare la relativa semplicità della scrittura. “Relativa” perché Legion non è certo una serie facile o sciocca, ma trovo che questi otto episodi vadano giudicati anche e soprattutto per ciò che hanno regalato ai nostri occhi e alle nostre orecchie, ben oltre la soddisfazione logica di una storia ben costruita.
D’altronde lo sappiamo: molto più che il cinema, da sempre laboratorio di sperimentazione audio-visiva, le serie tv sono il regno della scrittura, dove non a caso gli autori/sceneggiatori sono sovrani molto più degli autori/registi, al contrario, per l’appunto, di quello che succede sul grande schermo.
È anche normale che sia così, visto che la prima e più importante sfida, per le serie tv, è la costruzione di una storia che funzioni non per 90-100 minuti, ma per un numero indefinito di episodi.
Allo stesso tempo, il riconoscimento dei telefilm in quanto prodotti artistici deve anche passare attraverso la riappropriazione degli strumenti proprio dell’audiovisivo, in cui la forza non passa solo da una storia ben scritta o da un dialogo brillante, ma anche dalla capacità di rappresentare. Da qui arriva il plauso per tutte quelle serie, da True Detective a Breaking Bad, da Mad Men a Utopia, che accanto alla logica della racconto affiancano l’emozione dei sensi da cui quella stessa storia riceve continuamente nuova linfa.
In questo senso, Legion è un vero trionfo. Fin dal pilot ci siamo spellati le mani di fronte non solo alla capacità (che c’è), ma prima di tutto alla voglia di sperimentare e di mettere davanti agli occhi dello spettatore qualcosa che gli sembrasse nuovo e vivo.
Ovviamente, il concept aiuta: dal momento che il cattivo vive(va) all’interno della mente del buono, l’ambientazione psicologica e onirica diventa praticamente obbligatoria, consentendo agli autori di spingere sul pedale della creatività trovando sempre nuovi modi per mettere in scena lo scontro mortale fra David e Farouk, uno scontro di cui all’inizio non conoscevamo ancora i dettagli, ma che nel corso degli episodi è diventato sempre più chiaro e, come detto, facilmente comprensibile.
Chi ha criticato Legion, in piena legittimità, lo ha fatto prima di tutto proprio per questa sua insistita non-narratività, per questo suo gusto dello scavo psicologico che diventa colore, musica, sogno e orrore, in un continuo miscuglio di forme e indizi, di ricordi e illusioni, che di certo non ha reso la visione semplice o immediata.
In questo senso li capisco, quelli che hanno mollato. Non è una serie fatta per piacere a tutti, e tiene dichiaramente fuori quelli che, dalla serialità, chiedono altri elementi e altre regole. Ma per quelli che sono rimasti, che si sono fatti ammaliare da questo continuo rimuginare, la gioia è arrivata proprio dal vedere una storia che per parecchio tempo è sembrata non procedere – a volte esplicitamente, pensate alla scena della sparatoria, con le pallottole rimaste a mezz’aria per tre-quattro episodi, mentre nella testa di David succedeva di tutto – ma che in quel continuo rivolgersi su se stessa ha permesso il dispiegamento di un armamentario espressivo di primissimo livello: la paura che abbiamo provato con Legion, specie quando compariva il bambino con la testa gigante; il brivido sensuale di fronte alla conturbante (e disturbante) Aubrey Plaza, senza dubbio la migliore della truppa; l’ammirazione di fronte all’eleganza di certe transizioni, come la comparsa della stessa Lenny nella macchina di Oliver, in una delle ultime scene.
Questa è la cifra di Legion, e questo il suo posto all’interno del Marvel Cinematic Universe, un universo anche molto variegato al suo interno – dove il colore e l’energia degli Avengers si accompagna alla lenta oscurità di Daredevil – ma in cui probabilmente mancava un tassello che fosse davvero visionario, in cui un mutante potentissimo può trovare un vero sfidante solo dentro se stesso, perché altrimenti finirebbe tutto subito.
In questo senso, il finale è insieme coraggioso e rischioso.
Coraggioso (o forse solo paraculo) perché smorza la suddetta visionarietà per mettere almeno un po’ d’ordine, cosa di cui alla fine siamo comunque contenti. Un ordine così preciso che non manca nemmeno il deliberato riposizionamento su un tema classicissimo per i mutanti Marvel, cioè quello dell’integrazione fra diversi (sostenuta da David, figlio di Charles Xavier) o al contrario della lotta per la supremazia (sostenuta velatamente da una Melanie in versione Magneto che parlando degli umani dice “L’era dei dinosauri è finita”). Un’integrazione che Clark inizialmente rigetta, per paura della diversità, ma che probabilmente finirà con l’abbracciare, visto che lui stesso, gay sposato con figlio nero adottato, ha sicuramente dovuto combattere contro non poche etichette.
Rischioso perché, nel momento in cui divide David dal Re delle Ombre, trovando in Oliver una nuova casa per il parassita, sembra suggerire un deciso cambio di rotta, che potrebbe portare la serie su binari più tradizionali in cui un eroe fisico e definito si scontra con un antagonista a sua volta preciso e concreto, con un corpo tutto suo.
Potrebbe succedere, insomma, che la seconda stagione di Legion diventi più interessante per quelli che la serie l’hanno già abbandonata, né mi stupirebbe trovare qualche fan della prima ora deluso da un finale leggermente normalizzante, che recupera gli schemi del genere supereroistico senza devastarli fino in fondo (ma il twist dopo i titoli di coda dovrebbe comunque solleticare a sufficienza tutti quanti).
Ma al momento mi pare una preoccupazione eccessiva: la visionarietà di Legion è strutturale, non riguarda solo l’interno della mente di David ma anche tutto ciò che ci sta intorno, nei costumi semplici e perfetti, sottilmente vintage, nella fotografia insieme asettica e inquietante, nella costruzione di personaggi molto precisi ma mai facili o sciocchi, nell’uso per nulla banale degli effetti speciali, che anche quando diventano evidenti (come quando David accumula i soldati che vorrebbero uccidere i suoi amici) non sono mai pacchiani, rifuggendo con ostinazione le soluzioni più comuni del genere (tipo “ti lancio contro un raggio che ti fa finire contro un muro”).
E non ho parlato della musica (basterebbe citare Oliver che se ne va canticchiando “If I Ruled The World”), delle soluzioni sonore (l’horror creato con gli archi, alla Hitchcock), e neppure dell’amore fra Syd e David, che forse non è la componente migliore o più approfondita della serie, ma che trova una magnifica chiusura nel bacio-sacrificio di Syd, in cui la ragazza diventa una specie di principe azzurro che risveglia la sua Biancaneve facendosi volontariamente carico del Male che l’aveva addormentata, con una mossa insieme altruista per David, ed egoista nei confronti del resto del mondo.
È tutta così Legion, una girandola di sogni e colori, di indizi e riferimenti, che un po’ stordisce e a volte indispettisce, ma che ti lascia la chiara impressione di aver visto, in quei 40 minuti e spicci, molto più di quello che tante altre serie fanno vedere in dieci episodi pieni di eventi e sorprese, accumulate in modo pedissequo e infine poco significante. Qui no, la storia è semplice, ma non lo sono le emozioni che la mente contorta di David ci ha fatto provare.
È per questo, forse, che pur avendo visto solo otto episodi ci sentiamo comunque pieni e soddisfatti, consci che ci serviranno altri mesi per far sedimentare tutto ciò che i nostri occhi hanno avuto la possibilità di assorbire, e per essere pronti a una seconda stagione che, a questo punto, ha sulle spalle il dolce peso di un’aspettativa gigantesca.