Sherlock, The Six Thatchers e la Regola dell’Umanità di Diego Castelli
Il ritorno tanto atteso dell’investigatore di Baker Street
ATTENZIONE! SPOILER SULLA 4×01!
Ci siamo, siamo qui. Quarta stagione di Sherlock.
Se escludiamo The Abominable Bride, che comunque non era un episodio così a se stante come si pensava alla vigilia, aspettavamo la quarta stagione da TRE anni, proprio tanti per una serie che a ogni giro di giostra caga fuori solo tre episodi (mi si perdoni il francesismo).
E con tutto l’hype che si era creato, con tutta l’incredulità nel vedere due attori di fama ormai mondiale ritornare alla piccola serie tv che li aveva lanciati (o per lo meno “potenziati”), con tutto ciò che è successo in questi tre anni (alcuni spettatori saranno letteralmente deceduti, è arrivata Netflix anche in Italia, sono morti sia Han Solo che la principessa Leia, sigh), ora è inevitabile che le domande piovano come grandine: ma com’era? Ha rispettato le attese? Siamo soddisfatti? Il finale t’è piaciuto? E Moriarty dove sta? E come interpretiamo questo e quel dettaglio? E ci sarà una quinta stagione?
Perché non dimentichiamolo, il serialminder convive giornalmente con una strana patologia, quella che ti fa attendere con pazienza e tremore una stagione, e nel momento in cui quella inizia, forse anche poco prima, proietta le tue attese e le tue speranze su un’altra stagione ancora.
Per rispondere a parte di quelle domande vale la pena riprendere da dove eravamo rimasti. Se vi ricordate (e se non vi ricordate vi do due link: uno e due), alla fine della terza stagione avevamo lasciato uno Sherlock sostanzialmente sconfitto da Magnussen al termine di uno scontro mentale che, al momento (spoiler!!!!), è ancora il mio episodio preferito. E con lo speciale natalizio di inizio 2016 avevamo fatto un ulteriore passetto avanti, guardando un episodio ambientato quasi interamente dentro la testa del protagonista. Quel passetto avanti, ci eravamo detti, andava nella direzione di una crescita sempre maggiore della serie, che non poteva rimanere per troppo tempo legata al concetto del semplice e banale caso di puntata.
In “The Six Thatchers”, primo episodio della quarta stagione, questo stesso discorso viene portato così avanti, che vale la pena fermarsi un attimo e fare un ragionamento più “di sistema”.
Quello che sta succedendo all’interno di Sherlock è in realtà un fenomeno che abbiamo visto molte volte in tante serie tv. Non ricordo se in ambito accademico il fenomeno ha un nome preciso, ma in questa sede più amatoriale lo chiameremo “Regola dell’Umanità”.
Succede assai spesso quando in una serie piena di personaggi molto caratterizzati, al limite della macchietta, il prolungamento della narrazione oltre un certo limite impone una correzione di rotta, che quasi sempre coincide con una maggiore umanità e uno spessore più rotondo di quegli stessi personaggi. Che sia per le velleità dell’autore, per la necessità di stupire un pubblico sempre famelico di sorprese, o semplicemente per qualche ineffabile forza divina, a un certo punto i personaggi acquistano una propria vitalità con la quale spezzano le catene psicologiche che li avevano costretti fino a quel momento. Esempi? The Big Bang Theory, dove i nerd sfigatissimi della prima stagione ora hanno mogli e figli; Bones, dove la protagonista algidissima e apparentemente frigida ha trovato la via dell’amore e di un sacco di altre cose; Shameless, dove perfino un personaggio quasi cartoonesco come Frank Gallagher è riuscito a provare vero dolore; House MD, dove il formidabile diagnosta a un certo punto diventava soprattutto un formidabile depresso e un formidabile drogato.
E si potrebbero fare molti altri esempi.
A un certo punto, questi personaggi tagliati con l’accetta (e che da quell’accetta hanno ricavato fama e fortuna) diventano persone più reali, più simili a noi, seguendo un percorso che spesso i fan della prima ora tendono a deprecare (“eh ma una volta era meglio, traditori!!!”) senza accorgersi che in mancanza di quel cambiamento si sarebbero lamentati comunque (“eh ma è la stessa cosa da dieci anni, che palle!!!”)
Ora, purtroppo o per fortuna, è il turno di Sherlock. Per quanto molti spettatori possano ancora legittimamente sperarci, lo Sherlock Holmes impegnato in piccoli casi cervellotici non esiste più, e l’avevamo già detto tre anni fa: che piaccia o meno, l’elevazione di Sherlock a figura semidivina non è più compatibile con l’attività di un piccolo investigatore londinese. Allo stesso tempo, la strada da percorrere non è più nemmeno quella del semplice potenziamento delle cospirazioni. Nel momento in cui un intero episodio può esistere dentro la mente del protagonista, quale altra sfida intellettuale si può sperare di opporgli?
Ecco allora la Regola dell’Umanità.
Se dovessimo valutare “The Six Thatchers” dal punto di vista strettamente sherlockiano, nel senso puramente intellettuale del termine, sarebbe un episodio dignitoso e niente più. Un po’ di esibizione delle abilità di Sherlock, un cattivo che si rivela essere il meno prevedibile all’inizio (e quindi, paradossalmente, il più prevedibile), un intreccio in cui conta più l’ossessione per Moriarty piuttosto che la risoluzione dei vari enigmi. Tutto nella media, onestamente, e un pizzico di delusione sarebbe comprensibile (sempre considerando i tre anni ecc ecc).
Ma qui arriva il twist: con la morte di Mary, The Six Thatchers assume un’importanza tutta nuova, diventando il più umano ed emotivo fra tutti gli episodi di Sherlock.
Nel momento in cui Holmes è diventato troppo bravo per qualunque rompicapo, gli autori lo mettono di fronte a un problema che non può risolvere, in un ambito che non è quello a lui più congeniale, cioè quello dei sentimenti.
Non solo Sherlock deve stare vicino al suo migliore amico nel momento in cui diventa vedovo, ma deve anche convivere con la consapevolezza di essere almeno in parte responsabile di quella morte, non solo perché Mary si è sacrificata per lui, ma anche perché la pallottola è partita a seguito del suo ennesimo sfoggio di arroganza, come forma di ripicca nei confronti della sua pedante consapevolezza di poter predire qualunque cosa.
Avevamo già visto Watson incazzato con Holmes, ma mai come ora. Perché anche per lui vale la Regola dell’Umanità: se è vero che Sherlock era stereotipato in quanto investigatore infallibile e privo di sentimenti, è altrettanto vero che Watson era la sua iconica spalla, sempre pronto a perdonare i suoi eccessi e le sue stramberie. In questo episodio, complice un tradimento che peserà molto sulla coscienza del personaggio, abbiamo visto anche il lato umano di Watson, inteso qui non come il lato “sentimentale”, ma proprio quello umano, concreto, fallibile, simile a quello degli spettatori, per i quali le scappatelle di Watson erano impensabili tanto quanto vedere Sherlock dall’analista.
Siamo di fronte a una destrutturazione dunque, a un approfondimento che, preso atto di non poter cavare altro da ciò che già si conosceva dei personaggi, punta a mostrarci quello che non sappiamo, a sfidare convenzioni e schemi che esistono da un secolo, a inserire queste figure ormai leggendarie in situazioni nuove, per vedere come reagiscono e, così facendo, mostrarci la loro tridimensionalità, nella consapevolezza che al giorno d’oggi un personaggio può andare avanti fino a un certo punto, oltre il quale ha solo due strade: diventare uomo, o diventare banale.
A qualcuno piacerà, a qualcun altro no, e sono certo che più di uno spettatore boccerà la morte di Mary come un mezzuccio per fare sensazione, in maniera troppo simile a blockbuster più mainstream alla Game of Thrones o The Walking Dead. Una cosa però è certa: la Regola dell’Umanità se ne frega dell’opinione della gente.
La mia speranza, come già scrissi tempo fa, è che Sherlock tra non molto finisca. Non perché non mi piaccia la strada che sta prendendo/sperimentando, ma proprio perché l’esistenza di quella strada presuppone la costruzione di un viaggio. E un viaggio, sviluppato nel tempo e non cristallizzato nella pura forma, a un certo punto deve avere una fine. Preferibilmente enorme e devastante, ma comunque una fine.
Anche perché l’alternativa, in questo continuo crescere dell’umanità di Sherlock, potrebbe arrivare a mostrarcelo mentre si fa il bidet, e onestamente vorrei evitare.
(Che poi gli inglesi neanche ce l’hanno il bidet, zozzoni…)