American Horror Story Roanoke: e adesso cosa diavolo potrete inventarvi? di Diego Castelli
C’era talmente tanta roba, che la paura è che non sia rimasto fuori niente
SPOILER SU TUTTA LA SESTA STAGIONE
Ci tenevo a parlare del finale della sesta stagione di American Horror Story perché, dopo qualche anno di noia e indifferenza, questo ultimo ciclo di episodi mi ha fatto tornare l’interesse per i meandri oscuri della mente di Ryan Murphy, arrivando però a un tale parossismo da lasciarmi convinto del fatto che, ora come ora, la settimana stagione già annunciata sia del tutto superflua, perché ormai, onestamente, cosa ti puoi inventare?
Facciamo un mini riassunto della storia della serie. Una prima stagione con la casa stregata, buona per farci assaporare il ritorno in tv di un certo tipo di horror, condito dai temi cari a Murphy e dalla faccia da schiaffi di Dylan McDermott. Con la seconda stagione, il capolavoro finora insuperato: Asylum ha messo d’accordo quasi tutti, per la capacità di mettere in scena una storia malatissima, intricatissima, piena di attori carismatici e in cui non mancavano nemmeno lampi di ironia o di folle leggerezza. Unico difetto, forse, l’eccessiva carne al fuoco, ma erano quisquilie. Dal manicomio alle streghe, la caduta: Coven era brutta e inutile, non faceva paura né schifo, e sembrava un teen drama buono giusto a introdurre i volti di Scream Queens. Con Freak Show una leggera risalita, che però ha finito con l’essere un tentativo di riproporre, con meno efficacia, l’oscurità di Asylum: siamo nella media. Con Hotel le opinioni di dividono molto: trionfo del glamour, dell’erotismo e dello stile per alcuni (complici anche le evoluzioni della strana coppia Lady Gaga-Matt Bomer), una colossale rottura di palle per altri, me compreso.
E poi si arriva a Roanoke, sesta stagione partita in sordina ma capace di… beh, non so come dirla in altro modo se non “spaccare tutto”.
All’inizio ne avevo parlato bene, non fosse altro perché, a fronte di una location in qualche modo già vista (molti elementi da casa stregata, come nella prima stagione), si smarcava dai capitoli precedenti sia per l’approccio meta della narrazione, con una sorta di parodia horror del genere true crime, sia per un ritorno al passato non solo della serie, ma proprio del genere: lasciati da parte i lustrini e le facce da copertina, si tornava a personaggi brutti e sporchi chiusi dentro una gabbia di sangue.
Ancora però non potevo immaginare a che livello sarebbe arrivato quello stesso approccio meta di cui si diceva. L’iniziale costruzione del finto documentario era già un buon esercizio di stile, con gli attori a cui siamo abituati impegnati a impersonare ora persone “vere”, ora attori che interpretano quelle persone vere, in qualche modo attori “di secondo livello”.
Il bello, verso metà stagione, arriva quando quel primo documentario viene sostituito da un’altra parodia di tv-verità, in cui attori e persone vere nella finzione narrativa si ritrovano tutti insieme nella stessa casa assediata dai malvagi.
Il lavoro che entra in gioco con questo spostamento è sì attoriale, con Sarah Poulson, Cuba Gooding Jr e compagnia impegnati a impersonare la versione reale di figure che prima abbiamo visto recitare (ma ovviamente è tutto finto comunque, dal nostro punto di vista), ma è anche e soprattutto un processo di revisione linguistica, in cui le forme della messa in scena utilizzate fino a quel momento vengono modificate per dare l’impressione di una maggiore verosimiglianza, laddove fino a quel momento avevamo visto solo la “ricostruzione”. A complicare il quadro ci si mette il fatto che la realizzazione del documentario a Roanoke ha effettivamente influenzato tutto e tutti, portando l’oscurità in ogni livello della storia così che i personaggi di Kathy Bates finiscono per confluire in un’unica figura, quella della Macellaia, che diventa ubiqua, capace di portare la sua sete di sangue in tutti i successivi gradini di questo gioco di scatole cinesi.
Il finale, poi, invece di rallentare accelera: in quaranta minuti abbiamo documentario, documentario sul documentario, legal, youtube, spezzoni di altri programmi con gente a caso che visita la casa al centro del racconto solo per trovare lo stesso orrore già patito da altri.
Da sempre legate a uno specifico luogo (case, manicomi, circhi, alberghi), anche Roanoke racconta di un singolo “posto” nel quale succedono cose terrificanti e attorno al quale gravitano personaggi diversi che inevitabilmente cadono nell’abisso.
Ma questa metafora gravitazionale ci permette di leggere meglio l’intera stagione: dopo aver sperimentato in varie forme e colori, Murphy e Falchuk costruiscono un nuovo “luogo dell’orrore” e gli danno un tale peso che la sua forza di gravità non riguarda più solo i personaggi, ma l’intera struttura narrativa e filmica. Chiunque si avvicini a Roanoke, che si tratti di un documentario, di un reportage giornalistico, del video amatoriale di ragazzini agitati, finisce fagocitato dalla forza attrattiva del luogo, una forza che, come quella di un buco nero nello spazio, finisce col distorcere lo spaziotempo stesso, decretando la mescolanza irrimediabile di stili e contenuti.
In questo senso, l’abbondanza linguistica di questa stagione è un frenitico vortice che pian piano trascina tutto nel mulinello gravitazionale di Roanoke, finché la magia non viene almeno in parte spezzata dall’ultimo sacrificio di Lee, che decide di rinunciare a stare con la figlia affinché lei possa vivere.
E come ciliegina in questa teoria serial-gravitazionale che mi sto divertendo tantissimo a scrivere, ci mettiamo la ricomparsa di Lana Winters. Al di là del problema di avere due Sarah Poulson nella stessa serie, che vabbè, il ritorno di un personaggio centrale di un’altra stagione di AHS non fa altro che confermare questo potere attrattivo di Roanoke, capace di modificare stili e caratteri ma addirittura di riesumare elementi di stagioni passate, come se la sua gravità agisse anche fra le stagioni, e non solo nella stagione.
Per questo, ora, trovo difficile immaginare la settima incarnazione del franchise: perché a questo punto Murphy e Falciuk hanno non solo affrontato diverse declinazioni dell’horror, ma l’hanno pure completamente destrutturato, sminuzzandolo nei suoi minimi elementi produttivi e stilistici: horror che parla di horror che parla di horror.
Qualunque sia l’ambientazione della nuova stagione, qualunque sia il suo cast, il timore è che sia necessariamente “vecchia”, che qualunque cosa decida di fare suoni già visto. Allo stesso tempo, sta proprio nella bravura di un autore quella di riuscire a spiazzare i propri spettatori, anche quelli che, come noi, credono ormai di saperne una più del diavolo.
Le notizie per ora sono poche, ma si dice che la nuova stagione potrebbe arrivare già a marzo, che sarà collegata in qualche modo a Freak Show, e che sarà meno segreta di Roanoke, che per molti mesi è stata tenuta nel buio quasi totale.
Tutte parole di Ryan Murphy, che da bravo intrattenitore promette faville senza rivelare troppo.
Vedremo: la speranza che la resurrezione maestosa, incasinata e multiforme della sesta stagione non sia anche il limite oltre il quale non c’è più nulla da inventare.