Speechless: una comedy che poteva essere molto più brutta di Diego Castelli
Piacevoli sorpresine
Malgrado qualche novità si sia già vista nei giorni scorsi, è solo con questa settimana che i nostri calendari seriali esplodono di telefilm vecchi e nuovi, in una girandola che è probabilmente il momento migliore (e peggiore) per un serialminder: in attesa di capire quali serie sono troppo deboli per meritare la nostra attenzione duratura, per 2-3 settimane si cerca di guardare TUTTO, per paura di perdersi qualche chicca o mezzo capolavoro nascosto nelle pieghe dei palinsesti. Cosa che peraltro succede puntualmente, anche se magari stai impiegando otto ore nella speranza che un’altra serie si rialzi, pur avendo già capito che non lo farà mai.
Speechless, nuova comedy di ABC creata da Scott Silveri (a suo tempo produttore e sceneggiatore di Friends, e poi impegnato con altre comedy come Joey e Go On), era uno dei pilot su cui puntavo poco. La commedia generalista ormai comincia a starmi un po’ stretta, salvo eccezioni comunque presenti, e non mi stimolava particolarmente l’idea di una serie su una famiglia con ragazzo disabile appresso, si sentiva puzza di buonisimo e politically correct.
In realtà devo dire che sono rimasto piacevolmente sorpreso, forse grazie al magico potere delle aspettative basse. Di fatto la protagonista di Speechless è Minnie Driver, che interpreta la madre in una famiglia con tre figli giovani, di cui uno (JJ) affetto da paralisi cerebrale (l’attore che lo interpreta, Micah Fowler, è effettivamente costretto su una sedia a rotelle). Dopo l’ultimo di molti traslochi, solitamente legati alla ricerca di condizioni più adatte alle necessità di JJ, la famiglia di stabilisce in una nuova casa, un postaccio fatiscente ma a buon mercato, situato in un ottimo quartiere. Da qui in poi è un racconto delle sfide, delle difficoltà e delle vittorie della famiglia, animata da una gran voglia di fare e di vivere, immersa in una comunità fin troppo attenta alle sue esigenze, ai limiti della pietà.
Raccontata così, Speechless potrebbe far venire la carie. Eppure Silveri e soci riescono a trovare un difficile ma funzionale equilibrio. Si poteva fallire praticamente in ogni modo, calcando la mano su uno stucchevole buonismo, oppure sulla vena polemica contro una società poco attenta alle esigenze delle minoranze, ma si poteva toppare anche ricercando la normalità in maniera troppo ossessiva e pacchiana, del tipo “guardate come siamo normali e cool anche se abbiamo in casa il figlio disabile”.
Fortuntamente, almeno a giudicare dal pilot, Speechless riesce a trovare una più efficace via di mezzo, un po’ come a suo tempo fece Legit, che pure era una serie diversissima nell’approccio e nel tono, decisamente più adulto.
All’inizio del pilot il timore di un’eccessiva ricerca della normalità c’è, come se gli autori si sforzassero troppo per apparire deliziosamente autoironici. Con l’andare dei minuti, però, questa strana tensione si scioglie, e la storia diventa effettivamente quella di una famiglia dalle dinamiche normali, in cui anche il figlio disabile più essere una testa di cazzo, ma senza che questo fatto diventi rilevante proprio perché è disabile.
Si unisce a questo una leggera ma interessante satira sociale e culturale, che forse è l’elemento migliore del pilot: Speechless racconta anche l’ipocrisia di certo politically correct, l’ansia da prestazione di una società che piange ogni volta che può sui social network e poi se ne fotte nella vita reale, che tratta i disabili come bambini bisognosi di tutto (emotivamente oltre che fisicamente) e che si specchia nella sua stessa bontà, come si vede nella scena dell’arrivo in classe, dove i nuovi compagni di JJ lo festeggiano come se dovessero fare ammenda per la propria sanità.
In un mondo in cui prevale la facciata di un buonismo da cartolina e da rivista, sotto al quale però si nasconde un sostanziale menefreghismo che mira solo ad annullare i sensi di colpa, Speechless sembra lanciare un appello affinché i disabili possano ricevere l’aiuto di cui effettivamente hanno bisogno, come la presenza di una rampa all’ingresso della scuola, lasciando perdere l’aiuto di cui non hanno bisogno, soprattutto quello emotivo di chi vorrebbe vederli come cuccioli feriti che necessitano solo di coccole.
In questo senso, Speechless dà l’impressione di essere una serie sincera e onesta, in cui peraltro non mancano buone idee comiche, un ritmo discreto, e un cast di bravi attori, fra volti noti e meno noti.
Da qui a considerarla un capolavoro ce ne corre, più che altro perché la struttura di base non è tanto diversa da mille altre comedy che abbiamo già visto, e quindi manca un vero effetto sorpresa che renda indispensabile la visione. Ma quando un prodotto è confezionato come si deve, bisogna riconoscerglielo.
Perché seguire Speechless: i timori su una serie buonista e zuccherosa vengono spazzati via da un pilot capace di approcciare con intelligenza e ironia lo spinoso tema del personaggio disabile.
Perché mollare Speechless: per quanto riesca a evitare alcune trappole insidiose, Speechless rimane una comedy tutto sommato ordinaria, che difficilmente vi cambierà la vita.