Person of Interest: il giusto finale strappacuore di Diego Castelli
Non è niente, solo un bruscolo in un occhio…
OVVIAMENTE SPOILER!
E dopo Penny Dreadful tocca affrontare un nuovo addio, questa volta però ampiamente anticipato. Parliamo di Person of Interest ovviamente, la serie di CBS che all’epoca identificavamo come “il nuovo telefilm con Michael Emerson, il Ben Linus di Lost”, e che poi è riuscita a ritagliarsi un suo spazio e un suo gruppo di fan appassionati.
Il mio rapporto con Person of Interest è stato abbastanza conflittuale. Dopo un entusiasmo iniziale dovuto all’interesse fantascientifico e al carisma di un mena-cattivi d’antologia come John Reese, la mia attenzione era andata un po’ spegnendosi, colpa anche di una struttura molto verticale (un caso diverso ogni puntata) che nelle prime stagioni era largamente preponderante e che da sempre non incontra il mio personalissimo gusto.
Stavo quasi per mollarla, se ben ricordate, salvo poi rimanere piacevolmente sorpreso dall’irrobustirsi della trama orizzontale, dall’espandersi delle ambizioni filosofiche oltre il semplice poliziesco sci-fi, dalla capacità di piazzare con saggezza alcuni twist inaspettati, in particolare la morte (vera o presunta) di alcuni protagonisti storici.
Person of Interest non è mai diventata la mia serie preferita, non ci è andata neanche vicino. Eppure in questi anni, nel suo angolino seminascosto, è riuscita ad elevarsi dallo stagno del puro intrattenimento per tentare qualche passo più ardito, qualche ragionamento più significativo, soprattutto dopo la nascita di Samaritan e la trasformazione dei protagonisti umani da creatori e utilizzatori delle macchine, a fragili spettatori di uno scontro semi-divino fra intelligenze artificiali ormai fuori controllo. Anche la figura di Harold, da sempre legata al concetto del genio, ha faticato a tenere il passo della sua creatura, introducendo e sviluppando metafore genitoriali non banali, che hanno lavorato su temi come la morale, la responsabilità, il sacrificio. Tutti concetti applicabili sia al creatore, costantemente combattuto fra la speranza di aver fatto il Bene e il sospetto di non essere riuscito a escludere il Male, sia alla Macchina stessa, di cui abbiamo visto coltivare e crescere una coscienza che da una base di pura logica è riuscita lentamente a diluirsi nel sentimento, senza che il passaggio fosse troppo brusco o evidente.
In questo senso, la forma seriale ha dato una grandissima mano al progetto: concepire la storia di una Macchina nata per essere niente più di uno strumento di controllo preventivo, per farla diventare un’intelligenza che potesse addirittura amare e che meritasse di essere amata, avrebbe avuto sicuramente un impatto diverso se tutto il racconto si fosse esaurito nello spazio di un film (e di storie di questo tipo la fantascienza è comunque piena). La narrazione seriale, però, ha consentito uno sviluppo graduale della storia, esponendola al rischio della noia e della stagnazione, ma garantendole il tempo necessario affinché l’evoluzione dei personaggi (umani o no) riuscisse a essere davvero verosimile ed emozionante, pur nel contesto inevitabilmente futuristico.
E se parliamo di amore e affetto, mi piace sottolineare un altro elemento. Person of Interest, al di là della trama thriller di lungo periodo, è riuscita a creare quella che di solito si chiama “gang”. Una gang telefilmica non è altro che un gruppo di personaggi, infoltitosi nel tempo, che passa attraverso molte vicissitudini e problemi interni ed esterni, fino alla creazione di un blocco che ha sì un peso strettamente narrativo, ma soprattutto una valenza affettiva per lo spettatore.
Se ricordate la Scooby Gang di Buffy avrete l’esempio perfetto (ma vale anche per Firefly, o Once Upon a Time): un’accozzaglia di teen ager, vecchi osservatori, demoni vari, gente che magari un tempo si guardava in cagnesco, ma alla fine tutti uniti verso uno scopo comune, legati da sentimenti di amicizia più o meno dichiarata e romantica, e capaci di momenti di leggerezza e divertimento. Soprattutto, un gruppo che finiamo con l’amare, una “compagnia” di cui ci sentiamo di fare parte, dopo esserci cresciuti insieme.
La gang di Person of Interest, la Team Machine che comprende ex soldati dal pugno facile, geni della tecnologia, ex assassine fuori di testa e poliziotti corrotti ma capaci di redimersi, entra di diritto nell’elenco delle migliori gang seriali del reente passato, un gruppetto di amici e compagni a cui viene dato l’onere di salvare il mondo e lo fa portandosi dietro l’affetto di spettatori che darebbero un braccio per essere al loro fianco nella lotta. Ciò che proviamo per John, Harold, Shaw, Root ecc va oltre l’interesse per le loro specifiche vicende, fa storia a sé, come se le loro dinamiche fossero una serie dentro la serie. Se anche per assurdo Person of Interest dovesse diventare una commedia romantica, la permanenza di quel blocco di personaggi ci renderebbe difficile dirle addio, proprio perché gli amici non si abbandonano a caso, come se niente fosse.
Ed è con questo sentimento di unione e amicizia che si arriva al series finale, in onda un paio di giorni fa.
Per certi versi non c’è nulla di davvero sorprendente. Come spesso accade con le serie che hanno superato una certa età, che hanno costruito un certo percorso e che ora devono salutare il proprio pubblico, a contare non è tanto la sorpresa, quanto la capacità di dare una conclusione che sia coerente e soddisfacente.
Ecco perché il sacrificio di John non giunge inaspettato, ma non per questo è meno importante o significativo: invece di lasciar morire l’amico Harold, il genio che forse può dare ancora qualcosa al mondo, John decide di portare a termine l’ultima delle sue missioni, salvando la sua ultima e più importante vita, quella dell’uomo che l’aveva a suo volta salvato da un destino di depressione e oscurità.
Samaritan viene distrutto, si salvano Fusco e Shaw, e la Macchina riesce a tornare sulla Terra, forse pronta a proseguire la missione che suo padre le aveva dato e che ora lei ha cominciato a comprendere sul serio. Ancora una volta torna in gioco la metafora genitoriale, che a sua volta dà spessore al grande tema della crescita e del cambiamento. Se c’è un filo conduttore di tutta la serie è proprio quello dell’apprendimento, della capacità di imparare dai propri errori per migliorare se stessi. E se è vero che questo vale per tutti, partendo da Harold che in cinque stagioni mette e rimette in discussione le sue credenze e convinzioni, e finendo con Fusco che da parassita inetto diventa eroe e idolo delle folle (televisive), è chiaro che il processo vale soprattutto per la Macchina: tutto il finale è un unico racconto con cui la Macchina svela di aver sondato l’animo degli uomini per imparare a capirlo, e per imparare perché il lavoro svolto agli ordini di Harold era importante.
C’è pure fin troppo zucchero, siamo evidentemente di fronte a un finale un po’ retorico e smielato. E neppure possiamo considerare granché originale il messaggio finale espresso dalla Macchina in maniera parecchio esplicita: se aiuti gli altri, se qualcuno ricorderà il bene che hai fatto, allora la tua vita avrà avuto un significato e in qualche modo sconfiggerai la morte.
Roba da poster motivazionale, a voler essere cinici. Eppure era difficile fare diversamente, perché la trasformazione da Macchina a Persona non ha riguardato solo la “Machine”, ma anche tutti gli altri personaggi: all’inizio della serie John era una macchina da guerra, Harold una macchina razionale, Root era una macchina assassina, Shaw era la versione femminile e pure più fredda di John, Fusco era un animaletto viscido mosso solo dagli istinti e dall’egoismo. Pian piano, nel vivere le comuni (dis)avventure, questi personaggi hanno acquistato dei sentimenti, uno scopo, delle relazioni, compiendo di fatto lo stesso percorso della Macchina che era contemporaneamente strumento, alleato e datore di lavoro.
C’è un punto, durante l’episodio finale, in cui la Macchina spiega come la vita degli umani abbia valore proprio perché effimera, non-perpetua. Nell’assistere a 56 milioni di morti solo nell’ultimo anno, la Macchina ha cercato di capire quali fossero quelle significative e quelle no, scoprendo il valore nelle relazioni fra le persone, capaci di lasciare un’impronta in grado di sopravvivere alla morte del corpo. Una considerazione che, ovviamente, dà ulteriore valore al sacrificio di John, e permette alla Macchina di diventare più consapevole, di essere una “persona”, capace di portare avanti il lavoro anche senza Harold, perché ormai non ha più bisogno di un umano che le spieghi cosa è giusto fare, visto che l’ha imparato da sola.
Un passaggio di consegne dunque, che prescinde dalla natura biologica dei genitori e dei figli e punta tutto sull’importanza di lasciare qualcosa di positivo nel mondo, che sia una Macchina senziente capace di salvare vite umane, o una semplice serie tv abbastanza buona da lasciare un ricordo affettuoso nel cuore dei suoi spettatori.