Sherlock Christmas Special: l’ultimo twist prima del botto? di Diego Castelli
Un speciale meno placido del previsto
Inutile far finta di niente: per molti serialminder, la sera dell’1 gennaio era molto più attesa di quella del 31 dicembre. Andava infatti in onda lo speciale natalizio di Sherlock, l’agognata boccata d’ossigeno per chi sapeva di dover aspettare ancora un anno pieno (almeno) per vedere la quarta stagione.
Per l’occasione, i creatori della serie Steven Moffat e Mark Gatiss avevano promesso uno speciale davvero “speciale”, un episodio ambientato nella Londra vittoriana che avrebbe catapultato il loro Sherlock contemporaneo nell’ambientazione originale dei romanzi di sir Arthur Conan Doyle.
Si trattava a conti fatti di una particolare operazione di fan service, un percorso inverso a quello finora seguito dallo show. Dopo aver rinverdito la leggenda di Sherlock Holmes con un’ambientazione moderna, gli autori sembravano decisi a soddisfare il gusto di chi, proprio in virtù del successo dell’Holmes contemporaneo, si chiedevano che effetto avrebbe fatto vederlo nell’ambientazione originale.
Ad aggiungere un pizzico di mistero c’era poi il fatto che il titolo dell’episodio, The Abominable Bride, non sembrava direttamente collegato ad alcuna storia scritta da Doyle, sebbene quelle parole si trovassero in The Adventure of the Musgrave Ritual, uno dei racconti dedicati dedicati al celebre investigatore.
Com’è, come non è, alla fine eravamo tutti qui con i popcorn, pronti ad assistere a uno spettacolone magari a se stante, ma capace di ridarci un’ora e mezza di magia sherlockiana. Eravamo così pronti a questa immersione nel passato, che il previously all’inizio ci ha lasciato un po’ interdetti: ma perché mi fai vedere un riassunto delle puntate precedenti, quando quella che sto per vedere è completamente slegata dal resto?
In realtà era solo il primo indizio di quello che si sarebbe scoperto verso metà episodio: The Abominable Bride, lungi dall’essere un semplice “what if” completamente disconnesso dalla normale catena narrativa, si rivela invece un vero e proprio episodio di Sherlock.
In pratica, The Abominable Bride non è ambientato nella Londra Vittoriana, bensì all’interno del palazzo mentale di Sherlock, in quel momento alle prese con un rischio di overdose mentre ancora si trova a bordo dell’aereo dove l’avevamo lasciato alla fine della stagione tre.
Il caso che Sherlock ricostruisce nella sua mente, vecchio mistero di una donna che sembrò tornare alla vita dopo essersi sparata in testa, è per lui la possibile chiave con cui decrittare il mistero di Moriarty, che Sherlock ha visto morire nello stesso modo ma che alla fine della terza stagione sembrava essere tornato a fare danni.
A parte il fatto che alcuni spettatori si erano accorti quasi subito del giochino (il suicidio della sposa sembrava davvero troppo simile a quello di Moriarty per non essere un richiamo esplicito), questa scelta ha finito col dividere la critica. Se fate un giro su internet troverete fan entusiasti della sorpresa – soprattutto del fatto di aver avuto un effettivo episodio di Sherlock – e altri che invece l’hanno trovato un escamotage di basso livello.
Personalmente, pur notando qualche squilibrio di cui parleremo fra poco, pendo più per l’entusiasmo. Diciamocelo chiaramente: eravamo tutti contenti per il christmas special, ma saremmo stati più felici di avere la quarta stagione. The Abominable Bride diventa dunque una via di mezzo, non proprio un episodio normale, ma nemmeno qualcosa da vedere e poi mettere nel cassetto senza pensarci più.
Una volta scoperto il trucco, la valutazione di questi 90 minuti prende obbligatoriamente strade diverse da quelle preventivate. Non è più solo questione di valutare l’ambientazione (fantastica), i costumi (fantastici), o la bontà del caso di puntata (non eccezionale), quanto piuttosto di capire i termini dell’operazione e quello che essa ci dice della direzione che sta prendendo la serie.
All’inizio si diceva del fan service, cioè della pratica con cui un autore (a prescindere dal mezzo o dalla storia raccontata) cerca di dare ai fan esattamente quello che vogliono. Secondo alcuni critici, The Abominable Bride è troppo sdraiata sul fan service, cioè sulla continua ricerca di frasi ad effetto, di gif preconfezionate, insomma sarebbe troppo uno Sherlock-show rispetto alla costruzione di una storia efficace di cui Holmes è solo un ingranaggio, benché il più importante.
Bisogna ammettere che questo episodio, come forse l’intera stagione tre, è molto autocompiaciuto. Dopo quasi sei anni nei quali Sherlock è diventato un fenomeno globale, e dopo che il suo protagonista Benedict Cumberbatch è uscito dall’anonimato diventando uno degli attori più amati del mondo, è fin troppo percepibile la coscienza da parte degli autori di stare guidando una macchina stra-conosciuta e stra-amata. Sherlock Holmes, questo Sherlock Holmes, è una star gigantesca, una specie di semidio pagano alla cui mente non vogliamo o possiamo porre limiti.
Da questo punto di vista, The Abominable Bride è una specie di termine ultimo, un intero episodio che si svolge quasi solo nella mente di Sherlock, senza che esista un caso reale, o quasi. Un avvitamento narrativo che trasforma Holmes nel principio e nella fine di tutte le cose, dando a lui e solo a lui lo scettro della realtà, vera o percepita che sia.
Perfino certe scelte specifiche, come quel volo finale nella cascata, ad alcuni sono suonate come troppo tirate, troppo supereroistiche.
È tutto vero. È vero cioè che c’è una qualche arroganza nel mondo in cui Sherlock si offre al pubblico parlando quasi solo di se stessa.
Allo stesso tempo, però, è lecito chiedersi se questo percorso non sia in qualche modo inevitabile. C’è così tanta buona scrittura, nella genesi di Sherlock, così tanta capacità di dipingere un personaggio eccezionale, che per forza di cose quel personaggio finisce col prendere il sopravvento. Per quanto alcuni spettatori abbiano diritto a chiedere e preferire uno Sherlock Holmes che semplicemente risolve casi criminali con la sua arguzia e la sua intelligenza, da qui all’eternità come una moderna Signora in Giallo, è evidente che Moffat e Gatiss puntino invece (forse inconsciamente) a un potenziamento sempre maggiore del loro personaggio, ormai troppo abile per dei normali casi di puntata.
Il ritorno di Moriarty diventa allora inevitabile: come non esiste Batman senza Joker, così Holmes non può più esistere senza il suo acerrimo nemico, l’unico capace di tenergli testa, l’unico in grado di dare ancora vita a storie interessanti.
Vista in quest’ottica, The Abominable Bride è molto meglio rispetto a quanto certi spettatori delusi vorrebbero credere. È meglio perché si prende la briga di disseminare indizi non solo sulla sua struttura interna, ma anche sulla propria capacità di raccontare il mito di Holmes e di scavare nella psicologia dei propri personaggi.
La scelta di scrivere un episodio tutto ambientato nel palazzo mentale può suonare facilotta – e forse lo è – ma allo stesso tempo lascia lo spazio creativo per affrontare una serie di questioni assai importanti. Permette di recuperare la sfida con Moriarty senza resuscitarlo veramente; permette di creare la base per un futuro di cui non si è detto quasi nulla, ma che risulta ancora più interessante rispetto a due anni fa; permette di approfondire i problemi di Sherlock, la cui grande mente è insieme risorsa e pericolo; e permette infine di cogliere in pieno l’importanza di Watson nella vita del protagonista: non c’era modo migliore, per dipingere l’affetto di Holmes per Watson, di vedere come Sherlock lo inserisca perfino nei suoi sogni, dandogli il ruolo di amico, confidente, angelo custode, irritante ma necessaria voce della (auto)coscienza.
Il resto, questo sì, è fan service purissimo: le mille citazioni, i battibecchi femministi con la signora Hudson, le gag sui cappelli, il continuo riferimento al trucco del gemello (strizzata d’occhio di Moffati che ci sta dicendo che non compariranno mai gemelli di Moriarty) perfino un “Elementare, mio caro Watson” a mo’ di cioccolatino per i nostri stomaci già provati dalle feste. E alla fine quella bella ciliegina, un dialogo fra Sherlock e Watson (versione Ottocento) da cui potrebbe quasi sembrare che Sherlock come lo conosciamo sia solo una fantasiosa speculazione razionale del protagonista pre-novecentesco.
Non è fan service sgradito, dal momento in cui ci aspettavamo uno speciale natalizio che non fosse altro che quello, una continua citazione, un continuo ammiccamento festaiolo in attesa di una quarta stagione ancora troppo lontana.
Perde allora un po’ di importanza il fatto che il caso di puntata non sia poi così eccezionale, e sia in buona parte prevedibile fin dall’inizio: fin dalle prime battute femminismo e suffragette sono assoluti protagonisti, e la risoluzione è tutta contenuta in quell’ambito.
In definitiva, la questione è chiara. Sherlock sta evolvendo, e sta diventando altro rispetto ai suoi esordi. Il protagonista è così forte, così strano, così problematico, che alla fine i suoi problemi personali diventano “i” problemi, capaci di mangiarsi tutto il resto. Un po’ come accadde al dottor House (che dello Sherlock Holmes di Conan Doyle è figlio illegittimo), i cui problemi sentimentali e di droga finirono con l’essere più importanti (e interessanti) rispetto ai singoli casi medici.
È possibile ipotizzare, forse anche sperare, che noi si sia vicini alla fine di tutto. Difficile pensare a un altro seguito, dopo che Holmes avrà sconfitto di nuovo Moriarty dopo mirabolanti avventure e giochi logici. Cioè, si potrebbe anche tornare a una Sherlock più sobria, fatta di singole investigazioni, di normale seppur divertente quotidianità poliziesca. Ma siamo sicuri di volerla? Di voler cedere a questa nostalgia? Perfino l’autore letterario, a un certo punto, decise che era il momento di uccidere Holmes, proprio sulle stesse cascate viste in questo episodio.
Siamo anche noi spettatori, con il nostro entusiasmo e la nostra passione, ad aver reso questo Sherlock Holmes un mito assoluto. È giusto quindi che il suo percorso continui a crescere, fino a un limite estremo oltre il quale ci potrà essere solo un’esplosione finale, e poi addio.
Tutto vorrei augurare a Sherlock, tranne di invecchiare stancamente.