The Affair stagione 2: sempre grande classe di Diego Castelli
Nel solco della prima stagione. E meno male!
OVVIAMENTE SPOILER
Mi capita spesso di rileggere i miei vecchi articoli quando si tratta di affrontare una season premiere. Mi serve come un previously, ovviamente, ma soprattutto per capire cosa è cambiato nella mia percezione di una serie a distanza di mesi dall’ultimo episodio visto.
Ecco, dopo quattro episodi della seconda stagione di The Affair mi verrebbe da scrivere le stesse identiche cose che avevo buttato giù dopo il finale della prima. The Affair continua a essere una gran serie tv, anche se capisco perché ad alcuni possa stare leggermente sui maroni.
Di sicuro la nuova stagione ha sciolto ogni dubbio circa il peso delle varie componenti nel racconto complessivo. Dopo un primo anno molto legato al dramma romantico, qualcuno pensava (o sperava) che il crime prendesse il sopravvento. Non è stato così, e a questo punto è bene eliminare ogni equivoco: The Affair non è un giallo e non lo sarà mai.
In questo Showtime è stata un po’ stronza, perché evidentemente spera che quel poco di legal e di poliziesco presente nella serie convinca gli amanti di questi generi a rimanerle fedeli anche se il 90% degli episodi parla di tutt’altro.
Ma se Showtime è un po’ stronza, sta a noi non essere ingenui: non spendete tutto il vostro tempo con The Affair a farvi domande sul processo o su chi ha ucciso chi. Sarebbe come guardare Friends solo perché vi piace Gunther: ne uscireste un po’ frustrati. Se non vi interessa altro, meglio mollare e aspettare di leggere due righe su internet a serie finita.
Quello su cui The Affair punta, e su cui riesce benissimo, è il lavoro sui personaggi e sulle loro relazioni. In questo senso la seconda stagione è un seguito pulito e preciso della prima: Noah ha lasciato la moglie e Alison ha lasciato il marito, e ora i due provano a costruirsi una storia d’amore a lungo agognata. Solo che ovviamente non basta il colpo di spugna del “ti lascio” per consentire di voltare pagina come se niente fosse: ci sono i figli di Noah, c’è la causa per il divorzio, c’è la sensazione che, forse, alcune scelte siano state troppo affrettate per non andare incontro a una brutta fine.
La cosa bella è che sappiamo che effettivamente una brutta fine ci sarà: le questioni legali rivelano così la loro vera funzione, quella cioè di uno specchietto verso il futuro che ci mostra il naufragio di ogni buon proposito. La storia d’amore fra Noah e Alison – una storia da subito difficile, passionale e in qualche modo “necessaria” ma anche sofferta e umorale – finirà, e i due a un certo punto saranno quasi estranei.
L’esplicitazione di questo esito, dunque, lascia allo spettatore non la voglia di sapere cosa succederà, ma piuttosto come e perché, e getta su tutto il racconto una cappa plumbea e pesante, da disastro imminente. Una tecnica che permette di aggiungere tensione a ogni dialogo e ogni sguardo, ognuno dei quali può essere la classica goccia che fa traboccare il vaso. Alla fine è suspense hitchcockiana applicata al drama romantico: la tensione deriva non da un evento improvviso (quella non è la suspesne, è “sorpresa”) bensì dalla consapevolezza che un certo evento accadrà, senza però sapere come e quando.
Lo stupore, semmai, riguarda il fatto che il giochino regge ancora: temevo che insistere con una storia che aveva già detto molto potesse risultare troppo anche per chi aveva retto bene l’innegabile pesantezza della prima stagione. Così non è, perché la storia dei personaggi continua ad evolvere in modo lento ma costante e percepibile, e perché rimaniamo ancora incantati di fronte allo splendido lavoro degli attori, sempre bravissimi nel cogliere e restituire ogni più piccola sfumatura nei vari rapporti.
Anche l’alternanza del punto di vista, cifra stilistica della prima stagione, non ha perso una virgola della sua forza: su tutto grava ancora il tema della mancanza di una verità oggettiva, dell’impossibilità, nelle questioni di cuore, di avere una prospettiva certa e inequivocabile sulle cose.
Magistrale in questo senso la scena del primo episodio in cui Noah e Helen provano a raggiungere un qualche tipo di accordo per la separazione: dal punto di vista di lui è un incontro paritario, tutto sommato ragionevole, magari un po’ fastidioso ma poco di più. Dal punto di vista di lei è invece l’ennesima umiliazione da parte del marito fedifrago, un’umiliazione resa ancora più amara del fatto che il mediatore (un maschio) si siede accanto a Noah, creando sulla scena una specie di uomini vs donne in cui Helen è chiaramente vittima.
Non c’è mai alcuna Verità, in The Affair. Ci sono invece tante piccole verità (con la lettera minuscola), una per ogni personaggio, che vive le varie situazioni in modo rigorosamente personale influenzando la messa in scena a tal punto da lasciare lo spettatore senza riferimenti: non sapremo mai come sono andare veramente le cose, perché un “veramente” nemmeno esiste. Ogni evento è vissuto è accaduto nello stesso momento e nello stesso modo, ma la percezione che ne hanno i personaggi (e lo spettatore) è potenzialmente ogni volta diversa.
A ben pensarci, non è tanto The Affair a essere così, è la vita.