14 Dicembre 2010 5 commenti

Six Feet Under – Becchini, pompe funebri e serie tv di Marco Villa

L’anti-epopea della famiglia Fisher

Six Feet Under è tra i capolavori della serialità.
Credo pochi possano obiettare qualcosa.

La storia è nota. La serie creata nel 2001 da Alan Ball (ovvero Mr. True Blood) per HBO ha raccontato, in 63 episodi e cinque stagioni, le vicende della famiglia Fisher, impresari funebri di Los Angeles.
Ogni puntata si apre con la morte di una persona, che verrà poi presa in carico dai Fisher per il funerale. Intorno a questa sequela di morti, si sviluppa la vita della famiglia.

L’idea in sé spiazza per l’originalità, ma va detto che la stranezza data dall’ambientazione si esaurisce presto. Quello che rende Six Feet Under una grande serie non è infatti il concept di base, ma l’assoluto equilibrio di ogni episodio e di tutti gli episodi nell’economia generale del racconto.
C’è il turbamento continuo della storia d’amore tra Nate (Peter Krause), uno dei figli, e Brenda (Rachel Griffiths, ovvero Sarah Walker) portata avanti a lungo, ma mai tirata in lungo; c’è Ruth (Frances Conroy), la madre, alle prese con la vecchiaia e i rimpianti; c’è David (Michael C. Hall, ovvero Dexter), il figlio gay che oscilla tra controllo ossessivo di sé e voglia di lasciarsi andare; c’è la figlia minore Claire (Lauren Ambrose), immersa nella solitudine assoluta e nella volontà di diventare un’artista.

Tutte queste vicende si intrecciano per cinque stagioni, alternandosi tra primo piano e sfondo. La mancanza di una narrazione forte, sia essa orizzontale o verticale, finisce per forza di cose per esaltare i personaggi. Proprio nel loro trattamento risiede la grandezza di Six Feet Under: Alan Ball non ha paura di provocare il pubblico, per questo prende i personaggi e li piega, li contorce, li ribalta. Nel corso della serie tutti si rendono odiosi agli occhi dello spettatore, compiendo scelte e azioni che li fanno apparire insopportabili, oppure indugiando in situazioni di stallo per tempi insostenibili. Poi, nel giro di qualche episodio, i piatti della bilancia si invertono e il figliol prodigo viene riaccolto nelle grazie dello spettatore. In alcuni casi, certe figure risultano irritanti per lungo tempo: si pensi a Brenda, che fa la parte della stronza per almeno tre stagioni piene. Eppure, anche in quel caso, non si tratta del cattivo di turno, perché semplicemente in Six Feet Under non ci sono antagonisti reali. O meglio, ci sono nella prima stagione, ma poi, giustamente, vengono eliminati con una semplice battuta, sancendone l’inutilità a livello narrativo. Sarà banale scriverlo, ma gli antagonisti dei personaggi principali sono i personaggi principali stessi.

Ciò che rende diversa questa serie da altre a sfondo familiare, è la capacità di saltare da un tema all’altro con leggerezza, di essere commovente senza mai indulgere allo strappalacrimismo. Oltre ai personaggi macchietta che appaiono qua e là, a morti che nulla hanno da invidiare a Final Destination e a diversi tocchi queer, l’impressione infatti è che tutta la serie poggi su un tono allo stesso tempo lieve e drammatico.

Solo così è possibile realizzare un finale di serie così potente.
Solo avendo la consapevolezza di non avere mai preso in giro gli spettatori, si può spingere sull’acceleratore e mettere insieme sette minuti che valgono da soli intere stagioni di altre serie.
I sette minuti che sono qua sotto.
Se avete visto la serie, sapete già che tra qualche istante schiaccerete play con il fazzoletto a portata di mano.
Se ancora non l’avete vista, il consiglio è di farlo al più presto.
Non fosse altro che per schiacciare anche voi il tasto play.
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