13 Ottobre 2015 15 commenti

American Horror Story Hotel: noia, noia, noia di Diego Castelli

Sempre meno Horror, sempre meno Story…

Copertina, On Air

American Horror Story Hotel (7)

Spesso ho l’impressione che i lettori abbiano un’idea romantico-accademica del mestiere del recensore. Come se il critico (cinematografico, letterario, televisivo ecc) avesse in testa una specie di scienza che gli altri non hanno e che gli permette di giudicare in modo definitivo e inequivocabile.
Niente di più falso, ovviamente: il recensore una scienza in testa ce l’ha, o dovrebbe averla, ma non gli serve per dare giudizi obiettivi. La usa invece per giustificare in modo più preciso e – si spera – interessante i motivi per cui ha apprezzato o meno un certo prodotto. Ma per quanto noi si cerchi di analizzare strutture, stili e metodi, dandoci magari il tono dei grandi esperti, qualunque recensione parte da una semplicissima domanda di base: ma sta roba mi è piaciuta o no?

Bene, durante i circa 61 minuti della première di American Horror Story Hotel io avevo in testa un’altra domanda: avrò ricevuto qualche notifica di Facebook? Questo è il livello di coinvolgimento generato dall’ultima creatura di Ryan Murphy, questo il punto finale oltre il quale per me AHS ha dato tutto quello che doveva dare, e semplicemente non ne ha più.
Siamo alla quinta stagione del franchise ed è un momento importante: una sorta di spareggio, dopo due stagioni buone se non ottime e altre due stagioni (Coven in particolare) francamente mediocri. Al meglio delle cinque, si diceva una volta, lasciando a Hotel la possibilità di rialzare la testa anche in virtù di significativi cambiamenti nel cast: fuori l’icona Jessica Lange e dentro un’altra icona, una che ha un nome così altisonante che la promozione passa da “la nuova stagione di AHS” a “la stagione di AHS con Lady Gaga”.

American Horror Story Hotel (1)

CITAZIONI E NULLA PIÙ

L’ambientazione, come da tradizione, recupera uno dei luoghi simbolo dell’horror, l’albergo maledetto, che trova in Shining il suo esponente più famoso ma che sia prima che dopo è stato declinato in mille modi, sfruttando la caratteristiche naturali della location: mille stanze e corridoi sempre uguali, dove ogni porta può nascondere l’orrore o la salvezza, e dove i chilometri di moquette macchiata di sangue diventano il percorso spesso onirico e malato di personaggi sull’orlo della follia.
Non c’è nulla di male nel citazionismo e nella rivisitazione dei generi. Anzi, questa è stata la forza delle prime due stagioni ed è un elemento che spesso fa scattare il “mi piace” dei famosi critici citati sopra, che provano un piacere quasi perverso nel riconoscere rimandi e riferimenti.

Il problema è che le citazioni e il lavoro sulle regole di genere vanno benissimo, ma devono essere un plus, un’aggiunta, non tutto il pacchetto. Con American Horror Story Hotel Ryan Murphy decreta la definitiva morte della storia: non perché non ci sia una trama in Hotel (legata al cambiamento di proprietà dell’albergo e a come le varie presenze soprannaturali vivranno il cambiamento), ma semplicemente perché non è di alcun interesse, né per lo spettatore né per gli autori.
Abbiamo visto un solo episodio, ovviamente, e ancora molto più cambiare. Ma è da subito evidente la voglia di accumulare orrore su orrore, splatter su splatter, trasformando American Horror Story in quello che ha sempre rischiato di diventare: un semplice esercizio di stile, una collezione di singole scenette che dovrebbero far scattare ora urletti di paura ora battimani di eccitazione.

LEGGI LA SECONDA PARTE PER VEDERE COME VA A FINIRE



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