True Detective – Il punto a metà della seconda stagione di Marco Villa
Cosa va e cosa non va nella seconda stagione di True Detective
[ATTENZIONE: SPOILER SUI PRIMI 4 EPISODI DELLA SECONDA STAGIONE]
Dal paradiso alla dannazione, dall’essere la serie più bella del mondo a essere qualcosa di inguardabile. Se pensate a com’erano i commenti a True Detective dopo il finale e guardate quello che si dice in questi giorni, la sensazione è quella di un clamoroso capovolgimento. Il backlash all’ennesima potenza: tutto l’entusiasmo con cui la serie di Nic Pizzolatto era stata gasata è diventato benzina per il fastidio per la seconda stagione. Esagerazione? Cazzo, sì. Esagerazione all’ennesima potenza, perché la sensazione è che queste puntate abbiano permesso a molti di sfogarsi, di tirare fuori quello che avrebbero tanto voluto dire 15 mesi fa. Perché gli aspetti per cui True Detective oggi viene massacrata erano più che presenti anche nella prima stagione: la lentezza, l’inconsistenza della parte investigativa, i dialoghi e le battute oltre ogni livello di credibilità, i personaggi sempre all’estremo.
Quindi non ha senso lamentarsi di True Detective e questa seconda stagione vale la prima? Cazzo, no. Di cose che non vanno ce ne sono, ma, come scrisse il mio socio dopo la premiere, True Detective non è diventata di colpo la serie più brutta in circolazione. Certo, di cose che non quadrano ce ne sono e, arrivati a metà stagione, è il momento giusto per fare il punto.
1. I personaggi & gli attori
I personaggi ci sono, ma sono slegati. Abbiamo ormai capito le problematiche e le potenzialità di ognuno di loro, ma per ora non siamo riusciti a vederli interagire davvero. Velcoro è il classico poliziotto marcio, eternamente in cerca di redenzione (la “finta” morte al secondo episodio è la messa in scena di un passaggio esistenziale, in fondo); Antigone è una donna che vuol far valere il suo diritto di fare quello che vuole in un mondo maschile; Woodrugh è sospeso tra i traumi passati e l’incapacità di ammettere la propria omosessualità; Frank è costretto a un estenuante viaggio porta a porta per ricostruire il proprio impero e la propria posizione nel mondo. Personaggi talmente complessi e complessati da risultare quasi scontati, ma personaggi comunque di tutto rispetto. Cosa manca allora? Mancano gli attori. Taylor Kitsch ha la voglia non di un vecchio alla bocciofila, ma di un vecchio alla bocciofila che si è pure stancato di giocare a bocce. Farrell e McAdams fanno il loro, mentre Vaughn sembra più concentrato sull’operazione “devo rifarmi una verginità” che sull’interpretazione vera e propria. Tutto questo confrontato a McConaughey nel ruolo della vita e a un mostro come Harrelson. Con un altro cast anche la prima stagione sarebbe stata un po’ una sofferenza. Garantito.
2. Il racconto
In questa stagione l’indagine c’è: capiamo che ci sono delle trame e che verranno rivelati scandali. Capiamo anche che è qualcosa di molto complesso, ma fatichiamo a seguire il procedere dell’indagine. La sensazione è che Pizzolatto si sia voluto spingere di più verso il modello di The Wire, ma là l’indagine si vedeva eccome: tanta psicologia e tanta storia dei personaggi, ma anche uno scontro con i controcoglioni tra polizia e crimine. Anche nella seconda stagione, forse la più debole, quella ambientata nel porto di Baltimora. Quella che in realtà in True Detective sembra mancare è una storyline in grado di compensare questa assenza di tensione: nella prima stagione c’era tutta la faccenda dei protagonisti interrogati nel tempo presente, che comunque costruiva qualcosa e faceva crescere ansia nello spettatore. Qui invece siamo abbandonati a noi stessi, nel tentativo di decifrare quelle tre informazioni in croce che ci vengono date. Nell’attesa che venga evocato l’equivalente di Carcosa.
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