Zoo – La serie talmente brutta da diventare un mezzo capolavoro di Marco Villa
In Zoo gli animali si ribellano per impedire all’uomo di distruggere la Terra. Sì, proprio così.
Tra le tante cose che da tempo vorremmo fare su Serial Minds c’è una specie di vaccata alert, una serie di parametri in grado di indicarti quanto una serie o un film sia oltre e a quante cazzate contenga.
Ecco, in questa ipotetica classifica che va da Ladri di Biciclette a Flash Forward, Zoo si piazzerebbe davvero bene.
In onda su CBS dal 30 giugno, Zoo è il risultato dell’unione di quelle brillanti menti che nel 2010 avevano dato vita a Happy Town, inutilissima serie estiva piena di misteroni.
In Zoo si sono semplificati la vita, scegliendo un solo misterone: dall’Africa agli States, dagli Appennini alle Ande, gli animali si ribellano agli uomini. Ma non una ribellione del tipo “no, non mi faccio accarezzare”, una ribellione stile “siamo tanti, siamo grossi e feroci e se ci mettiamo insieme siete nella merda”. Quel tipo di ribellione nata dalla consapevolezza che l’uomo sta distruggendo il pianeta Terra e qualcuno dovrà pur fermarlo.
Esatto: gente che decide di scendere in campo per evitare che tutto si distrugga. Così i leoni tornano a essere predatori in Africa e a scappare dagli zoo di Los Angeles, mentre i gatti si uniscono in pericolose bande feline.
Lo dico una volta e non ci penso più: l’idea ci può anche stare (in realtà è tratta dal libro omonimo di James Patterson e Michael Ledwidge, ma vabbé) ed è una cosa senz’altro diversa, ma è l’unica cosa buona che dirò fino alla fine di questo pezzo.
Perché Zoo è una roba fatta talmente male, ma talmente male da essere un capolavoro di inconsapevolezza. Ovviamente i personaggi hanno la personalità di un Buondì finto, con il maschio alfa protagonista in primissima fila: è un trentaqualcosa che è fuggito dal pazzo pazzo Occidente per andare a trovare la vera essenza della verità essenziale in Africa. Ovviamente ha il suo bel problemone esistenziale, a forma di papà scienziato che aveva predetto la possibilità della big rebellion animale. E da qui nasce il momento più totalmente a cazzo del pilot: mentre ha davanti un branco di leoni maschi (“Ohibó, questi leoni dovrebbero ammazzarsi tra loro, non attaccare noi”) e alle spalle un burrone, il nostro amico protagonista ha tutto il tempo di fissare negli occhi il leone numero uno e cogliere nel suo sguardo la cosiddetta “pupilla ostile”. Traduzione letterale per una cagata di dimensione cosmica: quando un animale attacca ha uno sguardo cattivo, ma quando attacca per salvare la Terra ha uno sguardo ancora più ostile.
Buuuuuum. A casa.
La necessità di creare una cazzata del genere la dice lunga sulla lucidità degli autori e mette in secondo piano qualsiasi altra cosa, compresa la stucchevole storia della giornalista d’inchiesta che vuole svelare un GOMBLODDO ai danni dei poveri animali e che si accompagna al più classico degli scienziati esuberanti.
Il pilot di Zoo è bruttissimo, ma è una di quelle cose talmente brutte da fare tutto il giro e diventare quasi sublime. Ho detto quasi eh, QUASI.
Perché seguirla: per quelle due magiche paroline che sono “guilty pleasure”.
Perché mollarla: devo ripetervi la storia della pupilla ostile?