True Detective 2: un gran pilot, con la scimmia sulle spalle di Diego Castelli
Un nuovo inizio tra rischi e opportunità
In fondo recensire la première della seconda stagione di True Detective potrebbe non essere così difficile. La domanda che si fanno tutti è una sola: regge il confronto?
Un anno e mezzo dopo il debutto, la prima stagione di True Detective è ancora una specie di mantra, un punto cardine della serialità recente tale per cui se non l’hai vista sei scemo, e se l’hai vista e non t’è piaciuta sei più scemo ancora (o almeno questa sembra essere la percezione collettiva).
La sfida per Nick Pizzolatto, creatore della serie e sceneggiatore di tutti i nuovi episodi (il regista della prima stagione, Cary Fukunaga, è invece rimasto solo come produttore), era dunque estremamente ardua: quando spacchi tutto, riuscire a spaccare tutto un’altra volta è terribilmente difficile.
Il nostro compito, come umili recensori, è cercare di tenere un equilibrio tra giudicare un prodotto per molti versi “nuovo di pacca” – nuove storie, nuovi personaggi, nuove location – e insieme non dimenticare la forza e l’influenza del predecessore.
Pensate che, parlando col Villa, lui mi esortava a non parlare proprio della prima stagione, perché la seconda si era guadagnata sul campo il diritto a uno sguardo il più possibile libero da condizionamenti e paragoni.
Magari ha ragione lui. Probabilmente è quello che vorrebbe anche Pizzolatto. Ma cazzarola, non riesco, chiedo perdono.
Proprio perché l’ombra dei primi otto episodi è così lunga e scura, vale la pena ricordare il motivo per cui True Detective ci piaceva così tanto.
Chiamati a indagare le macabre gesta di un serial killer su due piani temporali diversi, gli investigatori Matthew McConaughey e Woody Harrelson divennero protagonisti di un racconto vagamente metafisico, in cui l’indagine vera e propria, pur appassionante, non era per niente il motivo dell’interesse degli spettatori, passati serenamente sopra una conclusione abbastanza ordinaria della vicenda poliziesca.
C’era un’atmosfera plumbea e malata, le pianure vuote e umide della Louisiana (location poco battuta dalla serialià), una strana e insieme ipnotica volontà di sondare le profondità filosofiche dell’animo umano, non solo attraverso le vicende dei protagonisti, ma anche usando semplicemente le loro parole, in un continuo rimasticamento della propria condizione lavorativa ed esistenziale.
Tutte cose che su carta potevano anche sembrare destinate al fallimento, ma che invece riuscirono a mescolarsi in una strana e imprevedibile magia, il cui collante principale era proprio il signor McConaughey.
Il buon Matthew aveva già dato prova di essere un bravo attore, ma ancora nessuno sembrava essersene accorto. Con True Detective, e contemporaneamente con Dallas Buyers Club, McConaughey diventò assoluto protagonista del 2014 audiovisivo: la voce strascicata, lo strano accento, un viscido e luccicante male di vivere che ne faceva un antieroe quasi perfetto.
Senza voler nulla togliere all’evidente bravura di Pizzolatto e Fukunaga, ho il forte sospetto che senza il “nuovo” Matthew McConaughey (lontano dei suoi vecchi ruoli romantici o d’azione) True Detective sarebbe stata, se non meno bella, sicuramente meno impattante.
Per questo la seconda stagione ha davanti a sé un compito arduo: il successo della prima non era dovuto a un semplice format, banalmente replicabile (cosa che secondo me potrebbe funzionare già meglio con Fargo, per dirne una). Quel successo era figlio di un’alchimia perfetta tra elementi imprevedibili e forse irripetibili. Allora, magari, True Detective 2 andrebbe letta non come una seconda stagione, bensì come la nuova serie dallo stesso autore di True Detective.
E a sto punto parliamone, di questa benedetta première. Largamente anticipato nei mesi scorsi, il cast di quest’anno è più ricco di protagonisti: Colin Farrell è il detective Ray Velcoro, della polizia di Vinci; Rachel McAdams fa lo stesso lavoro a Ventura nei panni di Antigone Bezzederis; Taylor Kitsch è Paul Woodrugh, poliziotto di strada che pattuglia le autostrade californiane; mentre Vince Vaughn è Frank Semyon, un imprenditore con le mani in pasta dappertutto e parecchi segreti.
Il primo episodio racconta in modo relativamente separato delle loro vite, dei loro molti problemi (tra figli forse non-biologici, sorelle pornostar, padri santoni ecc), e solo alla fine li riunisce quasi tutti per raccoglierli intorno a quello che, con ogni probabilità, sarà il caso criminale che segnerà l’intera stagione.
Ma lo regge il confronto? È bella come l’altra? PERDIO, è ancora True Detective?
Scoprilo nella seconda pagina (ammazza che trucco eh? Fantastico…)