Louie season (series?) finale: illuminanti botte di consapevolezza di Diego Castelli
L’ultima stagione di una serie clamorosa
SPOILER SU TUTTA LA QUINTA STAGIONE
Mi trovo in uno strano limbo. È finita la quinta stagione di Louie, tutti gli indizi sembrano suggerire che non ce ne sarà una sesta, eppure ancora non c’è notizia ufficiale in questo senso.
Quindi non so se aprire il cuore a quelle mie classiche recensioni da fine serie, tutte sbrodolate e coi lacrimoni, o se è il caso di risparmiare la retorica per un eventuale, successivo series finale.
Comunque la vogliate mettere, una cosa era e rimane chiara: Louie è una serie della madonna e chi non la guarda si fa un torto grosso così.
Non sto a ridire di che si tratta, visto che l’anno scorso avevo scritto un articolo a tema “mamma mia che idiota sono stato a non guardare Louie fino ad ora”. Se vi interessa ripassare, lo trovate a questo link.
Veniamo a noi. La quarta stagione aveva rappresentato un punto importante per la serie e per il percorso artistico di Louis C.K. Dopo aver stupito per tre anni con una storia e uno stile molto più raffinato, colto e delicato di quello che uno spettatore dei suoi spettacoli dal vivo potesse prevedere, con il quarto ciclo di episodi il comico americano aveva rotto ogni indugio, spingendosi talmente oltre da scrivere uno show che, paradossalmente, non era più nemmeno una comedy in senso stretto.
Molto più giocata sulle storie orizzontali rispetto al passato, la quarta stagione aveva scavato nell’inconscio e nel passato di C.K., lavorando sulla sua infanzia e sui suoi sogni romantici con Pamela. Quattordici episodi e tre macrostorie (bisogna aggiungere le sei parti di “Elevator”) con cui l’autore ha sperimentato molto sia dal punto di vista della scrittura che della messa in scena, arrivando, come detto, a momenti di aperto dramma esistenziale in cui si rideva poco o niente.
Una scelta che alcuni non hanno apprezzato, infastiditi da una sorta di tradimento delle origini ormai rimaste troppo lontane. È una critica certamente legittima, ma che non mi sento di condividere: non perché non si basi su fatti concreti (è abbastanza evidente che in certi episodi della passata stagione non si rideva mai), ma piuttosto perché ci vedevo un percorso così graduale e coerente, nell’evoluzione artistica di C.K., che mi sentivo parte di un processo creativo estremamente sfaccettato e appagante, anche se effettivamente le sue conclusioni erano molto lontane dalle premesse.
Detto questo, la quarta stagione sembrava un punto di arrivo. Se Louie fosse finita lì non ci sarebbe stato nulla da obiettare, o nulla da aggiungere.
Alla fine però l’accordo per la quinta stagione è arrivato, e sono andati in onda gli otto episodi che forse rappresentano la fine del viaggio serial-televisivo di C.K.
A leggere le interviste pre-messa in onda si era già capito che l’autore voleva tornare almeno in parte alle origini. Una scelta di cuore ma anche di impegno, visto che C.K. cominciava ad accusare la fatica: da qui la decisione di realizzare meno puntate e il tentativo di riprendere la struttura più agile e rapida delle prime stagioni, più semplice da scrivere e da gestire. Abbiamo quindi otto episodi in cui il respiro orizzontale si affievolisce, in favore di una serie di gag e sketch in cui la comicità torna a farla da padrone, anche se ovviamente nelle modalità vagamente malinconiche care alla serie.
Si tratta di episodi ben scritti e ben girati, la qualità non manca mai, ma che avrebbero potuto essere archiviati sotto l’etichetta “come una volta”, e morta lì.
Poi però arriva il doppio finale, in cui la densità narrativa e tematica torna improvvisamente a impennarsi, tirando le fila di un nuovo discorso che C.K. non aveva ancora affrontato in questi termini.
Dopo aver passato anni a raccontarci la sua vita, le sue difficoltà e frustrazioni, e l’umanità quanto mai varia e buffa con cui veniva in contatto, C.K. sembra essere preda di un’illuminazione improvvisa.
Sì perché in questi anni il comico non ha mai cercato di mostrarsi a noi come un figo, o un uomo di particolare carisma. Anzi, ha spesso sottolineato i suoi difetti e le sue mancanze (come padre, come marito, come vicino di casa ecc). Eppure, sottilmente, è sempre passata anche una curiosa forma di snobismo: pigro e asociale, e contemporaneamente conscio del suo status di comico di culto, C.K. si è sempre posto come la persona normale che chiede solo di essere lasciata in pace (cosa in cui tutti, a vario livello, possiamo riconoscerci), ma anche come persona fondamentalmente buona e giusta. Un buon cittadino, un ex marito ragionevole, un amante tenero e impacciato. L’abbiamo visto fare l’elemosina e aiutare sconosciuti che avevano bisogno di lui. Ci siamo inteneriti quando rifiutava la violenza o dava preziosi insegnamenti di vita alle figlie.
In pratica, mostrandoci le sue fragilità, C.K. ci ha anche mostrato la sua superiorità, il suo essere migliore rispetto a quasi tutti i personaggi incontrati. In maniera per nulla arrogante, ma comunque visibile, il suo show (ricordiamo che C.K. è protagonista, sceneggiatore e regista di tutti gli episodi) ha sempre messo il buon Louie al centro del mondo, come se lui ne fosse il metro di paragone.
Una sorta di mascheratissimo, quasi ingenuo delirio di onnipotenza, che lo stesso C.K. denuncia in maniera lucidissima proprio negli ultimi due episodi della serie, dedicati al suo girovagare per l’America per fare spettacoli. Ormai affermato e non più giovane, vediamo C.K. lamentarsi per le brutte stanze d’albergo, trattare male un autista troppo loquace che non lo fa riposare, imbarazzarsi per la comicità volgare e di basso livello di un comico suo collega. In tutte le situazioni siamo portati a essere d’accordo con lui: è vero che quel motel è pulcioso, è vero che l’autista è uno sfracassapalle, ed è vero che la comicità dell’altro è povera e banale. Eppure, con splendida autocritica, C.K. riesce a relativizzare il suo punto di vista, trasformando il suo occhio non nell’unico occhio possibile, ma in un occhio fra tanti. Nel confronto/scontro con il rozzo Kenny (una delle scene migliori di tutta la serie), Louie prende coscienza del fatto che il suo snobismo vale carta straccia di fronte a un comico che si diverte nel suo lavoro molto più di quanto non riesca a fare lui, e di fronte a un pubblico che ha tutto il diritto di divertirsi con una comicità fatta di rutti e peti.
Per chi conosce la standup comedy di C.K., poi, il contrasto diventa ancora più forte, perché anche nel suo passato (e in parte nel suo presente) ci sono gag più triviali e scoperecce, e un sapore volgarotto usato per far passare concetti più elevati.
In buona sostanza, dopo anni passati a scavare dentro se stesso e a illustrare pacatamente il proprio punto di vista sul mondo, l’ultimo (forse per sempre) episodio di Louie è una perfetta presa di coscienza che quello stesso punto di vista, pur meritevole di attenzione, è e rimarrà sempre “uno dei molti”, senza che questo implichi giudizi morali di alcun tipo. È una prospettiva spaventosa, per l’autore, che leniva certe malinconie e certe frustrazioni con la consapevolezza di essere il grande e stimato Louis C.K. Una consapevolezza che evidentemente lascia il tempo che trova.
Ecco allora il suo pianto di fronte a Kenny, ma ecco soprattutto il contrasto con tutta la scena della mascherata carnevalesca, dove C.K. ci aveva fatto vedere quanto si sentisse improvvisamente a suo agio nei panni impettiti di un altro, di un personaggio perfettamente stereotipato e quindi sicuro di sé, senza problemi, senza un pensiero al mondo.
Purtroppo la realtà è più difficile, e le nostre fragilità sono alla mercé di un mondo spesso impietoso. Non basta nemmeno credere di essere soli ma superiori, perché poi finisci in un lurido locale di cabaret di provincia che ti mostra come questo “superiori” sia estremamente relativo.
Un giudizio morale alla fine C.K. sembra quasi darlo, perché riserva per il buffo Kenny il destino della morte. Ma in realtà il giudizio non c’è: entrambi si sono ubriacati, insieme, e Kenny è rimasto vittima di un incidente che poteva capitare a entrambi. C.K. allora usa la morte ridicola del collega non come segno della propria superiorità (ormai quell’argomento era archiviato), bensì come ulteriore insegnamento per sé.
Non è un caso che la stagione (e la serie?) si chiuda con C.K. tornato a casa, intento a chiacchierare con la figlia. Dopo essere letteralmente sopravvissuto alla strada ed essere sceso a patti coi suoi demoni e i suoi peccati di superbia, Louie capisce che forse non ha più senso elevare il proprio sguardo al di sopra di tutto e di tutti. È più sano riconoscere la propria parzialità e diversità, senza dare per scontato il giudizio degli altri, e ricordandosi che alla fine, per stare bene, puoi anche farti bastare un frigo pieno e una figlia curiosa a cui raccontare storie inventate.