The Real Thing: addio a Mad Men, ma soprattutto grazie per il finale perfetto di Chiara Grizzaffi
Ultimo saluto ai nostri pubblicitari preferiti
Lenzuolata con pericolo spoiler e lacrimoni, ma il lutto lo dovevo pure elaborare in qualche modo.
Diciamolo subito, io sono contenta che Mad Men sia finito. Certo, la più di qualità tra le serie tv di qualità lascia un vuoto nella mia dieta seriale che non so se qualcuno potrà mai colmare. E avrei potuto tranquillamente guardare Kiernan Shipka crescere fino all’età della pensione, perché è stato più interessante veder diventare adulta lei in questi più o meno dieci anni che non l’Ellar Coltrane di Boyhood. Ma Weiner è uno che sa dire addio, uscire di scena con la stessa grazia dei suoi personaggi (ve lo ricordate Bert Cooper l’anno scorso?), e così ci ha regalato una stagione finale che è stata un lunga preparazione a un commiato sorprendentemente meno amaro di quanto ci saremmo potuti aspettare.
Ci sono volute sette stagioni perché quei personaggi che ci hanno catturato all’inizio, che abbiamo imparato a conoscere episodio dopo episodio, smettessero di resistere per arrendersi, per lasciarsi andare alla corrente di un cambiamento epocale, quello che li ha traghettati dagli anni del boom, del benessere economico e sociale, a quello della crisi, tanto individuale quanto collettiva. In sette stagioni tutti i protagonisti hanno compiuto un percorso alla ricerca della propria identità, ma in The End of an Era la maggior parte di loro, più o meno serenamente, è scesa a patti con le proprie ambizioni.
Lo ha fatto Pete, che abbiamo conosciuto insicuro, meschino e rancoroso, e che lascia quella posizione per cui aveva quasi preteso la testa di Don nella prima stagione, per poter ritrovare i suoi affetti. Lo ha fatto Joan: un personaggio da sempre ambiguo nel suo usare con consapevolezza il proprio potere seduttivo, che a differenza di Peggy ha manifestato più tardi le proprie ambizioni di carriera, ma che alla fine impara ad amare se stessa e ad anteporre le proprie esigenze a quelle degli altri.
E proprio Peggy, che per tutta la serie non ha fatto altro che consumarsi dietro il desiderio di veder affermare il proprio talento (e implicitamente di trasformarsi nel suo mentore, Don), alla fine acquista fiducia nelle sue capacità e decide di rimanere alla McCann, anche per amore. Forse il risvolto sentimentale della coppia Stan/Peggy apparirà come una concessione fin troppo zuccherosa ai fan che, ammettiamolo, iniziavano già a sperarci da un po’: personalmente, ho amato la strizzata d’occhio alla screwball comedy e alle sue coppie di innamorati/antagonisti proprio perché perfettamente bilanciata dall’arco narrativo di Joan, independent woman al di là di ogni stereotipo.
Forse però nessun personaggio ha lo spessore compiuto, e tragico, di Betty Draper. Il penultimo episodio è stato, insieme all’ultimo, il più bello della stagione e forse dell’intera serie. Betty è l’unico personaggio talmente ancorato al passato da non poter sopravvivere, la casalinga degli anni ’50 che appartiene a un immaginario da melodramma di Douglas Sirk, e quindi destinata a scomparire nell’epoca dei laureati e delle Mrs Robinson (come viene ironicamente soprannominata, tra l’altro, dagli studenti che la accompagnano al pronto soccorso). Se, pure, la sua ripresa degli studi e un certo miglioramento nel rapporto con Sally mostravano un personaggio maturato, la potenziale evoluzione viene interrotta della malattia: la lettera che scrive alla figlia riassume straordinariamente le contraddizioni del personaggio, che si rivela una madre più attenta di quanto non sia mai apparsa (che finalmente ha compreso l’indole della figlia) e allo stesso tempo ancora profondamente legata alla propria immagine di perfetta casalinga, da curare fino all’ultimo (le disposizioni sul vestito e l’acconciatura per la sepoltura).
In una serie piena di straordinari personaggi-meteora e di regular che potevano facilmente scomparire per interi episodi, il centro assoluto è però sempre stato Don Draper, e le attese per come si sarebbe conclusa la sua esistenza seriale erano altissime. Le oscillazioni tra euforia e depressione, tra i tentativi di vivere una vita normale e un’insoddisfazione divorante, ne fanno un personaggio fragile, e certo molte delle congetture sulla sua fine non erano particolarmente rosee (c’è chi ne ha ipotizzato il suicidio, chi ha pensato che lui fosse in realtà DB Cooper).
All’inizio dell’ultimo episodio lo vediamo sfrecciare a Desert Lake, in modo non dissimile dal Joaquin Phoenix di The Master, e forse ci aspetteremmo di vederlo scomparire all’orizzonte come lui. In fondo, è dall’inizio di questa seconda metà di stagione che Don perde, pezzo dopo pezzo, le poche certezze rimaste: al saccheggio dei mobili, metafora di uno svuotamento più profondo, si aggiunge la perdita della Sterling Cooper. Delle tre telefonate che Don fa nell’episodio, due – quella con Sally e quella con Betty – sanciscono la fine definitiva del suo ruolo di capofamiglia. E l’addio con Betty, con cui aveva ritrovato una certa tenerezza, è straziante.
Non va meglio poi con le donne che si mette in testa di salvare: dalla cameriera del fast food alla nipote di Anna, i suoi tentativi di proteggerle e redimerle risultano solo goffi, patetici. Cosa fai quando il tuo personaggio principale è da sempre intrappolato in una spirale autodistruttiva? Puoi dargli il colpo di grazia, o provare a salvarlo. E alla fine, contrariamente alle attese, Weiner concede a Don un primo barlume di consapevolezza nella telefonata a Peggy, unico momento in assoluto in cui un personaggio che non ha mai dato voce alle proprie emozioni trova il coraggio di verbalizzare il suo disagio, di dire ad alta voce cosa pensa di se stesso. E poi ci regala lo straordinario momento con Leonard, l’uomo che confessa la sua disperazione nel ritiro hippy. Leonard è l’opposto di Don: il primo dice di avere una vita noiosa, nulla da raccontare sul suo conto, il secondo ha rubato l’identità di un altro, ha avuto tantissime donne, è un pubblicitario di successo. Da cosa dipende il riconoscimento che porta Don ad abbracciarlo? Leonard parla di se stesso come fosse merce, un prodotto da scaffale che desidera solo di essere scelto. E per Don i prodotti che ha pubblicizzato, gli spot che ha creato, hanno sempre raccontato la sua storia, quella dell’orfano cresciuto in un bordello che desiderava essere qualcun’altro: dietro alla pubblicità del proiettore Kodak c’era una rappresentazione della famiglia che avrebbe desiderato (o meglio, che avrebbe voluto desiderare); quella della Samsonite raccontava dell’ultimo viaggio di una persona amata; il pitch per l’hotel Sheraton alle Hawaii manifestava la sua depressione, le sue fantasie di fuga; quello per le barrette Hershey che gli costa il licenziamento è una confessione che nessuno capisce, a parte lui.
Dietro ciascuna delle pubblicità pensate da Don (e non solo) in Mad Men ci sono le tante microstorie che si sono intrecciate con una Storia più grande, e che spesso stridevano proprio con quell’immagine dell’America che gli spot volevano promuovere. Perciò a Weiner non è andata giù che dello straordinario finale – le immagini dello spot Coca Cola Hilltop – molti notassero soltanto, con cinismo, il fatto che rappresenta l’appropriazione delle forme della controcultura da parte delle multinazionali. Oppure che lo trovassero troppo sdolcinato. Quello spot è l’ennesima confessione di un bisogno che va ben al di là di quello per un bene di consumo, e come tale va interpretato.
Per sette stagioni, Mad Men ha grattato la superficie patinata dell’universo pubblicitario, ma mai per scopi puramente ideologici. Ha fatto toccare il fondo ai suoi personaggi parecchie volte, ma mai per sadismo. Non riesco a pensare a una serie con uno sguardo altrettanto attento, ma in fondo empatico, su un’umanità a volte sì meschina e miserabile, ma soprattutto impaurita. Mad Men ci ha raccontato di quello che c’è dietro il mondo della pubblicità e dietro i giardini ordinati delle villette a schiera non perché potessimo prendere le distanze, ma per scoprirne le storie, capirne le ragioni, interpretare il presente, perfino. It’s the real thing, e per avercene dato un assaggio, caro Mad Men, possiamo solo dirti grazie.