Texas Rising: la miniserie di History Channel sulla nascita di Chuck Norris di Diego Castelli
Non è proprio così, ma in questo modo il titolo è più accattivante
Alzi la mano chi sapeva qualcosa della Guerra di Indipendenza del Texas.
No perché io onestamente non ne sapevo niente. Siccome però dovevo vedere Texas Rising, miniserie di History Channel incentrata proprio su quella vicenda e sulla nascita dei famosi Texas Rangers (sì, quelli di Chuck Norris), ho ben pensato di fare un giro su wikipedia.
È venuto fuori che il Texas era proprietà del Messico e che in pochi mesi, tra l’ottobre del 1835 e l’aprile del 1836, ci fu un’aspra guerra tra i coloni americani della regione e il governo messicano, che sarebbe sfociata qualche anno più tardi nell’effettiva annessione del Texas agli Stati Uniti d’America.
In realtà, in quelle righe ho poi trovato un evento ben più conosciuto, che mi ha dato la possibilità di mettere insieme i pezzi del puzzle mentale con conseguente, goduriosa sensazione di ordine universale: della Rivoluzione Texana fa parte anche la Battaglia di Alamo, questa sì molto famosa e molto presente in tanti film e romanzi. Ad Alamo, a cavallo tra febbraio e marzo del 1836, una missione/fortezza difesa dai texani venne assediata dai messicani, che sterminarono tutti gli occupanti. Un evento chiave della breve guerra, che infiammò i texani e i cugini statunitensi di un fuoco di vendetta che sarebbe stato decisivo per la vittoria finale.
Ecco, Texas Rising prende le mosse proprio da qui: Alamo è appena caduta, e il furore vendicativo comincia a serpeggiare fra le truppe di origine anglosassone, guidate dal generale Sam Houston e supportate dai suoi fedeli rangers, sorta di “forze speciali” dedicate a missioni di ricognizione e pronto intervento.
Ve lo dico subito cosa c’è di buono in Texas Rising: che è girata con i controcazzi.
Nel recente passato History Channel ci ha già abituato a messe in scena di alto livello (vedere Vikings o Hatfield & McCoys), e Texas Rising non è affatto da meno: diretta dal pluricandidato all’oscar Roland Joffé – regista di alcuni classici impegnati come The Mission e Urla del silenzio – la miniserie rispolvera il cinemascope, formato cinematografico estremamente largo usato poco e niente in televisione, ma che negli anni Cinquanta e Sessanta divenne un must del grande schermo.
Questo formato, caratterizzato da una ratio di 2.35:1, è particolarmente indicato alla rappresentazione del deserto americano, quelle pianure spoglie e assolate dove cowboy dalla pistola facile aspettano solo l’occasione per attaccar briga o fare duelli.
Joffé riprende quella tradizione e la usa al meglio, con una messa in scena non troppo enfatica (la sua mano risulta comunque sobria e “nascosta”) ma comunque di grande impatto visivo.
È proprio bella da vedere, Texas Rising, e il mio consiglio è di guardare la puntata su un televisore grosso e in alta definizione, perché ne vale proprio la pena.
Al regista non è stato fatto nemmeno mancare un gran bel cast: Bill Paxton, Jeffrey Dean Morgan, Ray Liotta, Brendan Fraser, Robert Knepper, Chad Michael Murray. Tanti nomi noti del piccolo e grande schermo per dare alla miniserie il classico sapore di evento imperdibile.
Senza entrare troppo nello specifico, ché sono un po’ troppi, posso dirvi che Morgan sprizza carisma anche quando tossisce sangue, mentre Fraser probabilmente stava meglio nella trilogia de La Mummia (ha proprio la faccia da patatone della Disney più che da cazzuto guerriero di una miniserie drammatica).
Detto questo, il premio per le migliori attrici non protagoniste (ex aequo) se lo aggiudicano le basette di Bill Paxton.
Qualche perplessità in più arriva dalla sceneggiatura. C’è innanzitutto una leggera barriera storico-culturale per noi italiani: gli eventi narrati sono probabilmente materia quotidiana degli studenti americani, ma qui da noi bisogna appunto andare su wikipedia, cosa che non aiuta la comprensione delle più piccole sfumature o la memoria immediata di ogni singolo nome.
Ci sono però un paio di altri problemi più specifici, che ruotano attorno a un’impostazione forse troppo manichea delle forze in campo. Pur nella robusta varietà dei caratteri, è difficile non notare che i bianchi texani sono dei fighi spaziali e uomini di onore incrollabile, mentre messicani (e anche pellerossa) sono viscidi buzzurri assetati di sangue.
Questa sembra essere in primo luogo una forzatura storica, perché raramente le guerre consentono di dividere così facilmente tra buoni e cattivi, e perché i coloni texani, tanto per dirne una, erano anche attivi fautori della schiavitù, cosa che in altri contesti e in altri racconti li renderebbe facilmente i “cattivi” della situazione.
Ma più dell’aderenza storica, che può essere importante ma che non deve mai essere la base della valutazione di un prodotto di finzione, questa impostazione rischia di togliere semplicemente spessore drammatico alla vicenda.
Il pilot, che tiene alto il ritmo e desta l’attenzione, tende però a essere un po’ troppo semplice nelle dinamiche, un po’ “vecchio”, considerando che ormai da tanto tempo il cinema e la tv hanno rinunciato (per lo meno nelle loro produzioni di più alto profilo) a strutture narrative che si adagiano sul classico “Ecco il Male, riempiamolo di piombo”.
Va anche detto che la miniserie, proprio in quanto “mini”, potrebbe anche non aver bisogno di eccessiva profondità, limitandosi a mettere su un bello spettacolone a sfondo storico. Certo però, così facendo, potrebbe finire con l’essere un romanzone tanto bello da guardare, ma che si dimentica presto.
Staremo a vedere…
Perché seguirla: grande cast, grandi mezzi, una produzione coi fiocchi che sembra presa di peso dal miglior cinema.
Perché mollarla: la sceneggiatura, pur solida, sembra non avere lo spessore e il respiro che ci si aspettava.