The Following: un commosso addio (sì be’, commosso, più o meno) di Diego Castelli
Eravamo amici, anche se alla fine non capivo quello che diceva
È finita The Following, in un’indifferenza generale forse abbastanza motivata. Ma voglio comunque spendere due parole al suo capezzale.
Ho sempre avuto parole abbastanza dolci per The Following. Forse per l’affetto verso Kevin Williams, creatore di Dawson’s Creek. Forse per la simpatia per Kevin Bacon, che è uno che ha la faccia da serial killer e poi va da David Letterman (sparito pure lui, dannazione) a fare il cazzone.
Soprattutto per una certa voglia di osare, di giocare con le regole di genere, di mettere in piedi un racconto incalzante-a-tutti-i-costi, costruendo un giochino tra gatto e topo (senza mai sapere bene chi fosse l’uno e chi l’altro) che strizzasse l’occhio ai più avvezzi al racconto televisivo ma che piacesse anche a tutti gli altri.
Il motivo per cui The Following non è mai stata una “bella serie”, perché su questo temo dovremo convenire un po’ tutti, sta nel fatto che alcune ottime intenzioni non hanno trovato concreto riscontro sullo schermo.
Il rapporto tra Ryan e Joe Carroll era profondo e ambiguo, ma solo su carta. Ci veniva cioè “detto” che Joe era una specie di cavaliere jedi capace di piegare a sé la volontà delle moltitudini, ma non siamo mai riusciti a “sentirlo”. Colpa di James Purefoy, bravo attore che però non è riuscito ad andare oltre un generico fascino virile, ma colpa soprattutto di linee di dialogo che, semplicemente, non erano abbastanza sorprendenti. Uso questo termine, “sorprendenti”, perché se devo immaginare un uomo che riesce a convertire decine di adepti al culto della morte, mi aspetto che dica cose mai sentite prima, frasi ipnotiche a cui è impossibile resistere. Questo non è quasi mai accaduto, lasciando ad altri personaggi della letteratura, del cinema e della tv (un nome per tutti, Hannibal Lecter) il compito di essere dei cattivi a cui non si può che volere un perverso bene.
Stesso discorso per la questione del ritmo: ci sta l’idea di avere un crime orizzontale dal ritmo sempre incalzante. Era la cosa più nuova e migliore dei primi episodi e per un po’ la serie c’è anche riuscita, dandomi sempre la voglia di vedere cosa sarebbe successo la volta dopo. Il problema è che, per reggere questa frenesia di inseguimenti e sparatorie, la sceneggiatura ha finito col seguire la via facile: rendere tutti deficienti.
Nel corso delle settimane, e in special modo in quest’ultima stagione, l’impressione non era di avversari “così bravi” da intuire e smontare le mosse dei nemici, bensì di gente “così scema” da fare sempre un errore di troppo che consentiva all’altro di reagire e fare un passo avanti.
Purtroppo, il pur sottile filo che teneva in piedi la baracca si è quasi completamente dissolto con la terza stagione: Joe Carroll praticamente fuori dai giochi, alla fine pure morto, e una serie di nuovi nemici che, se possibile, erano ancora meno interessanti: almeno di Joe c’era qualcuno che ci cantava le lodi, mentre poi i vari “cugini-cloni-altri studenti di un unico maestro” erano niente più che gente che uccideva a caso.
Eccolo qui un altro problema storico: le motivazioni. Il culto della morte di Joe, quella specie di spinta verso la semplice gioia dell’uccidere, è una motivazione da cattivo dei cartoni animati, o dei fumetti di tanti anni fa. Il che non è necessariamente un male, è legittimo costruire un cattivo in questo modo. Ma difficilmente una tale impostazione può reggere per più di una stagione. A un certo punto senti mancare sotto i piedi il sostegno di una psicologia che vada oltre il “mi piace uccidere le persone”.
Confesso che molti dei risvolti delle storie parallele li ho persi. Mi distraevo, navigavo su internet, facevo altro. Sono arrivato provato alla fine della serie, che semplicemente sembrava non averne più.
Ho sperato fino all’ultimo che Ryan diventasse un serial killer. Era folle, lo so, ma il rapporto post-mortem che stava intrattenendo con il fantasma mentale di Joe poteva far pensare a qualunque cosa. Cazzarola, ne avrei scritto proprio bene se fosse finito così. E invece no, anche in questo caso il finale sembra dimenticarsi di quella componente, concentrandosi su un’azione continua che a quel punto lasciava poco in bocca.
Detto questo, pur svaniti i miei sogni di anti-gloria, il destino di Ryan non mi dispiace. In pratica, il rapporto con Joe lo trasforma non in un serial killer nel vero senso della parola, ma in un uomo che perde il senso della legge burocraticamente intesa per diventare una specie di ninja spietato alla caccia di chi lo voleva catturare (che mica ho capito bene chi sono, ve l’ho detto che ero distratto). Quelle scene finali con Kevin Bacon incappucciato, pronto a farsi giustizia in storie che nessuno ci racconterà mai, mi hanno comunque lasciato un piccolo sorriso sulle labbra, forse dovuto al fatto che, se nessuno racconterà mai quelle storie, posso almeno immaginarmele più belle di quelle che mi hanno effettivamente fatto vedere.
Ciao Following, ti ho voluto stranamente bene, anche quando tutti ti scherzavano, come se ne vuole a un povero bastardino senza una gamba e cieco da un occhio ma che ce la mette tutta. Ecco, tu ce la mettevi tutta per fare qualcosa di diverso e di nuovo, e tante serie non possono nemmeno prendersi questo merito. Tu ti meriti quel riconoscimento, anche se poi, a conti fatti, di tutto quell’entusiasmo non hai saputo bene cosa farne.
RIP