Better Call Saul: lo spinoff di Breaking Bad parte alla grande di Diego Castelli
Avevamo paura, ma è andato tutto bene
ATTENZIONE! SPOILER SUL PRIMO EPISODIO (E SOLO SUL PRIMO) DI BETTER CALL SAUL
Tipicamente, quando viene annunciata una serie come Better Call Saul, si verifica quel curioso fenomeno per cui speranza, aspettativa e gioia crescono al pari di dubbio, paura e diffidenza.
Better Call Saul è lo spinoff di Breaking Bad, uno show che ha segnato profondamente gli ultimi anni di serialità televisiva e che quindi viene trattato come una specie di divinità, un’entità leggendaria a cui tutti sono chiamati a guardare con ammirazione – se non lo fai sei uno sfigato e non ti parlo più – ma che nessuno dovrebbe provare ad avvicinare, pena il rischio di caduta rovinosa.
È quindi ovvio che la produzione di uno spinoff di Breaking Bad, con la firma dello stesso creatore, ci fomenta entusiasmo: perché per quanto ci atteggiamo a saggi genitori consci che un bel gioco dura poco, siamo anche bambini ipereccitati che vorrebbero giocare per sempre. Una parte di noi non avrebbe mai voluto vederla, la fine di Breaking Bad, e avremmo voluto che una qualche magia lo prolungasse all’infinito. Quindi ben venga un telefilm che ci riporta in quei luoghi, con quei personaggi, con quella scrittura e quella messa in scena.
E però è altrettanto ovvio che la paura di rompere il giocattolo sia legittima: chiunque abbia visto più di cinque telefilm in vita sua sa benissimo che parliamo di una forma d’arte e d’intrattenimento che coinvolge centinaia di persone, e che quindi si basa su equilibri spesso delicatissimi. Ok, vogliamo tornare in quei luoghi, ma siamo sicuri che saranno “gli stessi luoghi” anche senza Walter White e Jesse Pinkman? E siamo sicuri che sia saggia la scelta di un prequel, quando una buona parte dell’interesse per Breaking Bad stava anche nel cosa sarebbe successo dopo?
Insomma, aspettativa e timore, fermento e segni della croce.
Ebbene, io non so se bisogna ringraziare il cielo (dubito) o Vince Gilligan (più probabile), fatto sta che il pilot di Better Call Saul è una figata. E per quanto alcuni confronti siano d’obbligo, il giudizio non deve essere per forza una comparazione. Non è questione di meglio o peggio, anche perché dal solo pilot non si può decidere. Per ora l’importante era capire se Better Call Saul avesse o no i numeri per prendersi sulle spalle un’eredità così pesante. E cazzarola, da quello che ho visto ieri sera i numeri ce li ha eccome.
La cosa bella è che non servirebbe nemmeno vedersi tutto l’episodio, basta la prima scena. Ci avevano detto che Better Call Saul sarebbe stato un prequel, avrebbe quindi raccontato la vita di Saul prima di incontrare Walter, e per un breve periodo circolava pure l’ipotesi che sarebbe stato una sorta di comedy da venti minuti.
E invece, senza dir nulla a nessuno, l’inizio del pilot è un drammaticissimo sequel: in una scena in bianco e nero, immagini da provincia stelle e strisce e musica d’annata, Gilligan ci mostra il Saul Goodman del presente, che è fuggito verso il Nebraska e ora lavora in una tavola calda dove continua a guardarsi le spalle per paura dei brutti ceffi. Giorni sempre uguali, amarezza generalizzata, e una totale nostalgia per i tempi che furono, racchiusi in una logora VHS piena di vecchie pubblicità.
No, Better Call Saul non è una comedy. Soprattutto, Vince Gilligan sa assolutamente cosa sta facendo. Non so se d’ora in poi vedremo ancora immagini del presente o se staremo sempre nel passato, ma questo inizio è comunque un fortissimo legame con la serie che fu, e il brivido che corre lungo la schiena dei fan di Breaking Bad è abbastanza forte da immergerli nel più favorevole dei mood. Di fatto Better Call Saul è un sequel, ma con un enorme flashback. Come se il futuro di Breaking Bad esistesse davvero, ma solo il passato fosse meritevole di racconto (e di colori). Roba da far girare la testa subito, e con tanto gusto.
Il resto dell’episodio non fa che confermare ciò che volevamo venisse confermato: la regia raffinata di Gilligan è sempre la stessa, con l’attenzione per i dettagli, le soggettive degli oggetti, la capacità di scavare nei volti dei protagonisti; soprattutto, la serie sembra in larga parte orizzontale, ha insomma una struttura simile a quella di Breaking Bad in termini di grande saga con un macrosviluppo molto articolato.
Ma la sorpresa più gradita, quella che spazza via la paura legata all’idea di uno spinoff dedicato a Saul Goodman, è che proprio lui, Saul, la scena la regge benissimo anche da solo. In Breaking Bad era un’ottima spalla, ma il timore è sempre che una spalla sappia fare solo quello, anche se magari ti capita di vedere Bob Odenkirk in altre serie (tipo Fargo) e ti rendi conto che è un attore coi controcazzi. Invece nessun problema, perché Saul Goodman ha tutto il carisma che gli serve e soprattutto che serve a un prodotto di Vince Gilligan: può far ridere, può far riflettere, può piantarti un groppo in gola, a seconda dei casi.
E se a queste considerazioni aggiungete l’immediata presenza di due personaggi come Mike e Tuco (con sviluppi tutti da definire), ecco che l’orgasmo seriale è bello che servito.
In attesa di vedere già oggi il secondo episodio (che al momento di scrivere questo articolo ancora non ho visto, anzi se non spoilerate nei commenti vi stimo), rimangono due grosse domande in sospeso.
La prima riguarda la capacità della serie di creare tensione narrativa pur sapendo dove si va a parare: quando Walter e Jesse incontrano Saul Goodman nelle seconda stagione di Breaking Bad (nell’episodio intitolato guarda caso “Better Call Saul”) l’avvocato non sembra venire da chissà quale passato mirabolante. O meglio, capiamo che è uno che ne ha già viste parecchie, ma siamo sicuri che basteranno a reggere il peso di una serie a sé stante? E il fatto che sappiamo che Saul non potrà morire, né fare cose che lo portino lontano da quello stesso posto dove incontrerà Walter, rischia di ammazzarci il pathos? Difficile dirlo ora, tocca aspettare un po’, ma intanto qualche bel segnale c’è già: proprio la comparsa di Tuco sul finire dell’episodio regala ai fan di Breaking Bad quella vertigine che solo le grandi narrazioni spalmate nel tempo sanno dare, e non c’è motivo di dubitare che Gilligan sarà in grado di darci altre simili, graditissime scosse.
La seconda domanda ce la poniamo invece per i non-fan di Breaking Bad. Gli autori di Better Call Saul hanno insistito molto con la stampa sul fatto che fosse fruibile anche da chi non aveva visto Breaking. Sono dichiarazioni comprensibili da parte di chi spera di guadagnare anche pubblico nuovo, e va detto che la storia ha una sua piena solidità che prescinde dalla conoscenza specifica di eventi accaduti nella serie precedente (il fatto che sia un prequel ovviamente aiuta).
Allo stesso tempo, però, proprio la vertigine di cui si parlava prima nasce quasi unicamente dal fatto che i fan di Breaking Bad sanno già chi è Tuco, e sono quindi elettrizzati dalla sua comparsa. Chi invece Breaking Bad non l’ha mai vista deve “limitarsi” ad apprezzare gli elementi dell’episodio che prescindono da altri telefilm.
In definitiva, tra speranze e timori, mi sembra che il saldo sia ampiamente positivo. Se avevamo paura che Gilligan stesse mettendo in piedi una serie scritta con la mano sinistra, giusto per lucrare un altro po’ sul brand di Breaking Bad, possiamo stare tranquilli: Better Call Saul sembra piena di quella qualità e di quella passione che ha fatto grande la serie madre e, anche se sarà difficile arrivare a quei livelli, siamo comunque ampiamente sopra media.
Perché seguirla: la mano che scrive e dirige l’episodio sembra ancora quella del miglior Vince Gilligan, e Bob Odenkirk riceve lo scettro di Walter White con sorprendente naturalezza.
Perché mollarla: nonostante l’ottima partenza, i rischi per la serie non sono certo finiti, e l’ombra di Breaking Bad resterà enorme e inquietante ancora per un bel po’.