21 Gennaio 2015 11 commenti

12 Monkeys: quei reboot rischiosissimi di Diego Castelli

Qui si scherza col fuoco

Copertina Pilot, Pilot

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L’ultima volta che ci siamo trovati a scrivere di una serie tv tratta da un grande film si trattava di Fargo. Dire che c’è andata bene mi pare un eufemismo.
Oggi facciamo più o meno la stessa cosa, tra l’altro con un film uscito negli stessi anni: parliamo di 12 Monkeys (in italiano L’esercito delle 12 scimmie), che a vent’anni dall’uscita al cinema diventa una serie per Syfy, da considerare come una sorta di remake/reboot dell’originale (la sbarretta si deve alle differenze tra le due versioni, che diventeranno sempre più rilevanti con l’andare della storia).

Voi sapete bene che qui a Serial Minds non andiamo matti per i confronti: ci piace pensare che una serie debba funzionare con le sue gambe, senza doversi per forza appoggiare a un passato più o meno glorioso. Faremo così anche questa volta, se ci riusciamo, ma allo stesso tempo la maggiore vicinanza tra i due mezzi di comunicazione (cinema e tv si somigliano di più rispetto a telefilm e letteratura) rende più spontaneo un confronto, non fosse altro perché il film ha creato un certo tipo di immaginario (anche visivo) con cui inevitabilmente la serie va a scontrarsi.
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Da questo punto di vista, 12 Monkeys (la serie) presenta due ordini di problemi.
Il primo è visivo.  L’esercito delle 12 scimmie era diretto da Terry Gilliam, e tutto il film era permeato dal talento visionario dell’ex Monty Python. Come accaduto spesso nei suoi lavori (da Brazil a Parnassus, passando per Le avventure del Barone di Münchausen) Gilliam aveva letteralmente “riempito” L’esercito, immergendo i personaggi in ambienti pieni di oggetti, citazioni, cianfrusaglie, pattume e suppellettili, creando un futuro meccanico e kitsch da contrapporre a un presente più “normale” ma sempre parecchio incasinato. Era insomma un film con uno stile molto preciso, subito riconoscibile, a cui la produzione aveva aggiunto nomignoli da poco come Bruce Willis, Brad Pitt e Madeleine Stowe, che adesso fa la stronza in Revenge ma che allora era attrice cinematografica di un certo peso.
Purtroppo, 12 Monkeys non ha conservato praticamente nulla di quello stile, non solo in termini di banale copia, ma nemmeno come vaga derivazione. A giudicare dai primi due episodi, lo stile visivo di 12 Monkeys è piuttosto convenzionale, perfino un po’ povero, e quindi manca di diventare il valore aggiunto che invece Terry Gilliam era riuscito a dare a L’esercito (a fronte della consapevolezza di stare proponendo allo spettatore un viaggio fisico, ma anche e soprattutto mentale). Ovviamente, poi, la serie non può giocarsi la carta attori-della-madonna, e quindi si ritrova con due protagonisti (Aaron Stanfonrd e Amanda Schull, a cui va aggiunta Emily Hampshire) che per il momento non sfigurano, ma nemmeno fanno gridare al miracolo.
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Il secondo problema è narrativo. L’esercito delle 12 scimmie parlava di un uomo che veniva spedito nel passato per raccogliere informazioni su un’epidemia che, nel suo tempo di origine, aveva decimato la popolazione terrestre. Quel “raccogliere informazioni” è fondamentale: sottintendendo che il passato non poteva essere volontariamente cambiato (se cambi il passato, non hai motivo di fare il viaggio nel tempo per cambiare il passato, e crei quindi un paradosso), L’esercito appariva come un superamento concettuale di certo cinema degli anni Ottanta (tipo Terminator o Ritorno al Futuro) in cui la questione delle modifiche temporali era trattata in modo certamente affascinante ma un po’ meno ragionato e rigoroso. L’esercito si pose invece il problema dell’immodificabilità del passato, arrivando a costruire un perfetto loop spaziotemporale, per cui il supposto agente del futuro faceva in realtà parte di una storia già scritta e già avvenuta, di fatto immutabile.
Vent’anni dopo, la serie 12 Monkeys sembra invece disposta a tornare al fiabesco del passato: il protagonista non torna indietro  per cercare informazioni, ma dichiaratamente per modificare il corso degli eventi. Per quanto la questione sia presente nella mente degli autori (che ci spiegano come il personaggio “esca” dal tempo smettendo di subirne gli effetti), la spiegazione che ci viene fornita suona al momento un po’ posticcia, quasi abbozzata, ma soprattutto sembra smentita dai fatti mostrati nel pilot, dove invece la vita di Cole e gli oggetti che indossa sembrano ancora ben ancorati al flusso temporale.
Può sembrare una questione troppo specifica a fronte della richiesta di normale intrattenimento, ma è difficile pensare che gli appassionati di fantascienza non si accorgano (con dolore) di un approccio che suona più vecchio e, soprattutto, estremamente più a rischio di incongruenze a catena.
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Ma quindi, a fronte di questo confronto un po’ impietoso, 12 Monkeys è da buttare? Non necessariamente.
Capiamoci bene, queste due puntate non sono eccezionali, specie considerando le alte aspettative. Però sembrano esserci alcuni margini di crescita. Ragionandoci a mente fredda, senza l’ansia da paragone, ci si rende conto che alcune modifiche alla trama erano necessarie per liberare la storia da una serie di paletti che altrimenti l’avrebbero trasformata in una versione diluita del film. Questo non significa essere meno intransigenti di fronte a eventuali cazzate, significa però capire che una serie tv lavora su binari diversi e ha bisogno di strumenti più elastici. Con questo approccio è anche possibile farsi prendere da una certa curiosità per il futuro della vicenda, proprio per capire dove gli autori andranno a parare e quanto finiranno per allontanarsi da un modello che era sì perfettamente funzionante, ma anche completamente chiuso.
Per fare un esempio, la storiella del graffio sull’orologio è parecchio d’impatto, anche se ci fa stridere qualcosa nel cervello razionale, e non è nemmeno detto che il problema della gestione dello spaziotempo sia realmente tale: specie nel secondo episodio, gli sceneggiatori insistono molto sui continui rimandi interni del flusso temporale, suggerendo la presenza di una struttura potenzialmente (speriamo) un po’ più solida e ragionata di quanto il pilot non facesse supporre. Rimane quindi un margine di incertezza che andrà meglio specificato in seguito.

Certo, va anche detto che la più grossa delusione sta in un personaggio importante come quello di Jennifer Goines, versione femminile del Jeffrey Goines visto nel film e interpretato all’epoca da Brad Pitt. Non so se la scelta di cambiargli sesso sia dovuta proprio alla paura di generare confronti improponibili col signor Jolie, ma gira che ti rigira il problema si pone lo stesso: per ora la Hampshire non si avvicina nemmeno alla meravigliosa, schizzata follia del fascinoso Brad, che vent’anni fa diede vita a uno dei migliori “non protagonisti” che il cinema ricordi. Nella serie, purtroppo, Jennifer è fin troppo normale, una pazzariella come tante ne abbiamo viste in tv, e nel secondo episodio trova pure il tempo per un bello spiegone di cui al momento non si sentiva la necessità.
Ancora una volta, comunque, la vera differenza è l’impostazione di fondo: la serie rinuncia alla visionarietà bruciante di novanta minuti di film, per provare a costruire qualcosa  di meno sorprendente, ma che riesca a reggere sul lungo periodo. Aspettiamo di vedere se ci riuscirà davvero.

Perché seguirla: il concept è ancora fresco dopo vent’anni, e il binomio complotto+viaggio nel tempo può dare comunque delle soddisfazioni.
Perché mollarla: speravamo in un impatto maggiore, visivo e narrativo. Considerando le aspettative, al momento la serie sembra fastidiosamente “normale”.
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