The Newsroom series finale: non lasciamoci male di Diego Castelli
Si chiude una serie non perfetta, ma che ci ha dato comunque tanto
Aaron Sorkin e Marco Villa sono amici. Cioè, Sorkin non lo sa, ma sono amici lo stesso. E come capita anche tra amici veri, a volte si litiga, magari si urla pure e volano parole grosse. Ma non per questo si smette di volersi bene.
Questo è il motivo per cui scrivo io del finale di The Newsroom. Il Villa c’è andato giù pesante un paio di settimane fa, quando un penultimo episodio molto problematico ha sollevato un discreto vespaio di polemiche. Poi però è lo stesso Villa che è venuto da me a dirmi “dai, scrivi tu del finale”. E siccome sa benissimo che io non ne scriverò male, dovete immaginare Sorkin e il Villa come due vecchi amici che hanno litigato e stanno in due angoli diversi della stanza, fingendo di tenersi il muso quando in realtà stanno ripensando ai mille momenti passati insieme e non possono fare a meno di sorridere con virilità.
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PRIMA PARTE [SENZA SPOILER SIGNIFICATIVI]
Mi dispiace assai che anche The Newsroom sia finita. Dico “anche” perché questa è un’annata di grandi perdite: Sons of Anarchy, Parks & Recreation, Mad Men, quasi sicuramente Community. A The Newsroom (complice anche la durata inferiore) non ci siamo affezionati con la stessa intensità ma, considerando anche certe recenti dichiarazioni di Aaron Sorkin sul suo futuro televisivo, questo addio assume un significato ancor più pesante.
La prima stagione di The Newsroom mi aveva fatto innamorare totalmente. Fresca, divertente, ardita. Volutamente polemica e antipatica. Raccontava come sarebbe dovuto essere il lavoro del giornalista, attirandosi addosso le critiche dei giornalisti veri e beccandosi subito pesanti accuse di inverosimiglianza e snobismo. Accuse in parte giustificate, probabilmente, ma che non cancellavano la fulgida bellezza del paradosso: guardavamo la prima stagione di The Newsroom per avere un nuovo punto di vista su temi che già conoscevamo, ma di cui eravamo disposti a dibattere ancora. Volenti o nolenti, sentivamo che un’opera di finzione ci stava informando più degli organi di informazione reali.
Un paradosso non privo di criticità e trappole, ma che ammantava i personaggi di un erosimo epico e assolutamente affascinante, a partire dal monologo di Will contro la presunta superiorità statunitense e giù giù fino alle pulci fatte ai potenti e in particolare al conservatorissimo Tea Party.
Proprio per l’entusiasmo donchisciottesco che provavo per le dinamiche della prima stagione, la seconda mi aveva lasciato più interdetto: gli eroi erano caduti, potevano sbagliare e, improvvisamente e nonostante le buone intenzioni, erano stati trasformati nei peggio bugiardoni (anche se proprio quelle buone intenzioni erano la base per la nostra empatia, per la possibilità di soffrire con loro della sconfitta).
La terza stagione ha chiuso un cerchio, facendo rialzare i nostri eroi dalla polvere ma lasciandoli in qualche modo segnati, feriti, e per questo meno disposti a lasciarsi andare senza freni, come se stessero reimparando a essere dei buoni giornalisti dopo aver perso la bussola per qualche tempo.
Al netto delle evoluzioni e dei twist più o meno riusciti, però, il concetto è sempre rimasto lo stesso: nella buona e nella cattiva sorte, Aaron Sorkin ha scritto una serie che racconta (vorrebbe raccontare) al pubblico come dovrebbe essere il giornalista modello, in base a quelle regole deontologiche (tipo il controllo compulsivo delle fonti o la loro segretezza) che il reale giornalismo contemporaneo spesso dimentica o semplicemente ignora (e vale negli Stati Uniti come in Italia).
In questo The Newsroom non si discosta più di tanto dalla sua inarrivabile sorella maggiore, The West Wing, dove Sorkin raccontava una politica ideale, in cui tutti sono preparati e hanno a cuore il bene comune, pur partendo da idee diverse sul come raggiungerlo.
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A lasciare The Newsroom un passo indietro sono state due componenti, strettamente intrecciate: in primo luogo, al netto delle discussioni filosofiche che pure erano all’ordine del giorno, The West Wing aveva personaggi più veri, una narrazione più complessa e articolata. Era insomma un drama vero, in cui la visione filosofica e politica di Sorkin emergeva dalle pieghe di un racconto già solido di suo. The Newsroom, e qui arriva il secondo punto, è stata invece più dipendente dalla verve polemica di Sorkin, è stata un’estensione del suo pensiero, che a volte ha fagocitato il racconto nudo e crudo lasciandolo spoglio o poco approfondito, con personaggi che lottavano per uscire dalla macchietta, riuscendoci però solo in parte. Questo protagonismo sempre più evidente del suo autore, sempre più “maestro” per una platea di “allievi”, è l’elemento che più ha lasciato perplessi molti commentatori dell’ultima stagione, come se le vicende di Will, MacKenzie, Jim, Maggie e gli altri fossero pretesti per dare cornice ai monologhi dello stesso Sorkin (con The West Wing, dove Sorkin era comunque innamorato di se stesso, succedeva il contrario).
Detto tutto questo, però, c’è un fatto che rimane saldo a prescindere dagli scivoloni e dalle incazzature: The Newsroom va consigliata. Le pulci che facciamo a Sorkin derivano dall’amore che proviamo per il suo lavoro e per la sua prima creatura seriale. Sappiamo dove può arrivare e quindi gli chiediamo sempre il massimo. Le critiche vanno dunque inserite in una prospettiva precisa, perché se allarghiamo quella prospettiva a tutto il panorama seriale, allora bisogna ricordare che The Newsroom è varie spanne sopra al 90% di quello che passa in televisione. Per il ritmo, per l’arguzia, per la ricercata potenza di certe esagerazioni, per lo stile meravigliosamente autocompiaciuto del suo creatore, forse lo sceneggiatore in cui più è evidente l’amore assoluto per la scrittura, per le parole, per la discussione e l’argomentazione.
A fine serie, criticità a parte, credo che The Newsroom sia comunque riuscita a far riflettere, a riprendere in mano temi già dibattuti e forse dimenticati per inserirli in una cornice di intrattenimento che riuscisse a spingerli di nuovo nella testa degli spettatori. Sì, l’opinione forte e a volte arrogante di Sorkin è venuta fuori, ma proprio il suo essere bastian contrario e avvocato del diavolo, canalizzato nella voce dei suoi personaggi, ci ha costretti a pensare con la nostra testa e a valutare ogni dettaglio, anche solo per decidere che non la pensavamo come lui. È comunque un risultato migliore dello stare seduti a fare zapping senza meta con addosso una canotta unta.
PARTE SECONDA [CON SPOILER]
E se vogliamo parlare proprio dell’episodio finale, esso racchiude buona parte dei pregi e dei difetti fin qui elencati: è un episodio piacevolissimo, veloce, divertente, abilissimo nel mostrarci un’ultima volta l’altezza morale e umana di personaggi estremamente fallibili nel quotidiano ma campioni assoluti nella loro vocazione, anche se i flashback ci mostrano che ognuno, in qualche modo, ha avuto bisogno di una spintarella nella giusta direzione. Ma è anche un episodio che perde un po’ la bussola su certi risvolti prettamente narrativi: penso ad esempio al ritorno di Neal, di per sé assai gustoso ma incastrato a forza in una storia, quella dei documenti rubati, che nel corso della stagione ha mostrato le fragilità strutturali tipiche di ogni “pretesto”.
Il gusto di ognuno è poi chiamato a valutare personalmente fino a che punto è accettabile certa retorica da fine serie: il discorso su Charlie, il concertino improvvisato durante il suo funerale, il momento da zuccherosissima romantic comedy tra Jim e Maggie. Sono scene entusiasmanti o al contrario troppo cariche, a seconda della sensibilità di ognuno. Io le ho adorate tutte, perché sapete che nei finali divento ancora più puccioso e romanticone del solito. Sì, lo ammetto, anche il coronamento della storia di Jim e Maggie m’è piaciuto, e me ne frego se spesso sono stati fastidiosi o stralunati: quando Jim giustifica la fiducia sulla loro storia a distanza anche a fronte delle sue brutte esperienze passate, dicendo “I wasn’t in love with them”, bisogna solo alzarsi in piedi ad applaudire.
L’unica cosa a essermi sembrata davvero forzata di questo finale è la notizia della gravidanza di MacKenzie, che trasforma Will in padre modello nel giro di venti secondi: non fuma più e porta in giro bambini che ha conosciuto due minuti prima. Forse un tantino troppo, pur considerando il conto alla rovescia ormai agli sgoccioli.
Ma gli ultimi istanti sono proprio da Sorkin (quello bravo), quando invece di un finale “definitivo” veniamo semplicemente condotti un’ultima volta in redazione, dove sta per andare in onda una nuova puntata e dove tutti, chi con le vecchie mansioni chi con le nuove, sono pronti a fare il loro lavoro ancora per molto tempo, anche se noi non saremo lì a guardarli.
E a me l’emozione mi sale, che volete che vi dica.
PS IMPORTANTE
In conclusione, dopo aver sbrodolato per righe e righe, vorrei però chiudere con un elemento su cui, credo, saremo tutti d’accordo: cioè, voglio dire, come si potrebbe parlare davvero male di una serie con Olivia Munn?