Sons of Anarchy Series Finale – Farewell SAMCRO di Diego Castelli
Il glorioso finale di una delle serie più belle
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SPOILER! SPOILER! SPOILER!
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Dannazione, è finita.
Non avrò mai più un nuovo episodio di Sons of Anarchy da guardare.
Uuuuh, se fa male…
C’è sempre un po’ di difficoltà, in questi casi. Bisogna parlare di un episodio, ma anche di tutta una serie. Perché con ogni probabilità questo sarà l’ultimo articolo “serio” (virgolette d’obbligo) che questo sito dedicherà ai motociclisti di Charming.
Per toglierci dall’impasse direi di fare le cose semplici, pulite, lineari.
“Papa’s Goods”, il series finale della settima e ultima stagione di Sons of Anarchy, è esattamente l’episodio che ci aspettavamo. Sfumature a parte, succede tutto quello che avevamo previsto: la morte di Jax, i gradi di presidente che passano a Chibs, un po’ di altri morti, Nero e Wendy che portano i figli di Jax verso un futuro migliore (senza sapere che, quasi sicuramente, Abel li ucciderà tutti nel sonno appena entrato nella pubertà).
Per una serie che spesso ha giocato con gusto sulle sorprese, sulle rivelazioni improvvise, sui decessi che non ti aspetti, sembra quasi strano parlare di un episodio che fila via così liscio, così pre-vedibile. E poco conta che per un momento Jax sia sembrato davvero sul punto di andare semplicemente via, quando lo sparo di Chibs nel braccio di Happy ha tutta l’aria di una comoda via di fuga. È appunto solo un momento, perché dalla polizia puoi anche fuggire, ma da te stesso no.
Il senso di straniamento comunque scompare presto, quando ti rendi conto che questo episodio non poteva che essere così: è un addio, non un cliffhanger. È la fine della corsa, non una curva pericolosa. E allora non servirebbe a niente tirare ancora la corda, mostrare i muscoli del ritmo, far esplodere tutto al solo scopo di attirare l’attenzione di uno spettatore in più. Non serve, siamo qui, siamo sempre stati qui, e non c’è ansia da prestazione.
Per questo Kurt Sutter (che ha scritto e diretto l’episodio) imbastisce un racconto fatto di tanti saluti, tanti abbracci, tante strette di mano, tanti quanti ne servono a Jax per prendere commiato dal suo mondo di sempre. A un occhio estraneo, che la serie non l’ha mai vista, credo possa sembrare un episodio altamente retorico e vagamente schizofrenico, con le lacrime maschie che si mescolano alle battute ad effetto, e poi qualche colpo di pistola a freddo, apparentemente dal nulla.
E probabilmente un po’ retorico lo è davvero, questo episodio, un po’ melenso, ma di certo non è un problema per chi ha superato da anni lo scoglio dei maschioni di cuoio che continuano a dirsi “I Love You” ogni volta che possono. Siamo oltre, non ci facciamo mica problemi, e quindi una certa teatralità della narrazione di Sutter diventa non solo accettabile, ma perfino necessaria per dare densità e corpo a un addio straziante, ancora più potente perché lungamente preannunciato.
Torna tutto, nel finale di Sons of Anarchy: non solo perché Jax paga per i suoi peccati, sorridendo al camion che lo solleva da questo mondo. E non solo perché così facendo chiude esplicitamente un cerchio aperto dal padre venti anni prima, quando la morte di JT era stata inutile perché arrivata (anzi, procurata) troppo presto. Soprattutto – e questa mi è parsa una delle cose migliori della puntata e di tutta questa seconda parte di stagione – perché Jax riesce a raggiungere il suo scopo ultimo rimanendo fedele a se stesso.
Gemma gliel’aveva detto, prima di beccarsi una pallottola in testa: noi siamo così. Quello che Jax sembrava non essere riuscito davvero a capire, in questi anni, era che lui non era tanto diverso dagli altri criminali che l’avevano preceduto. Era finito troppo in profondità nel lato oscuro per poterne uscire facendo il bravo bambino. Tutti gli sforzi profusi per togliere SAMCRO dalla delinquenza e dal pericolo non avevano portato a niente, prima per pura sfiga, e poi per suoi evidenti errori di giudizio. Insomma, Jax il leader virtuoso, legalmente onesto, non lo sa fare, non ne è mai stato capace. In questo è sempre stato più simile al patrigno Clay che non al padre JT, forse perché, conti alla mano, ha vissuto più col primo che col secondo.
Una volta presa coscienza di questo fatto, a Jax non è rimasta che una cosa da fare: eliminare fisicamente tutto il Male, compreso il suo. Lo dice chiaramente, facendo eco alla madre, mentre parla con Nero. Senza dire esplicitamente di aver ucciso Gemma, spiega all’amico che ha fatto quello che sa fare meglio. Il vero colpo di genio di Jax, forse il primo, è aver trovato un modo di raggiungere i suoi scopi usando le poche armi che aveva: ha ucciso tutti, partendo da sua madre e passando per un “king” dall’IRA, giù giù fino a Barosky. “Papa’s Goods” è l’immolazione finale di Jax, che si trasforma nella Signora con la falce per fare semplicemente piazza pulita. Eccola, la chiave per la vittoria: eliminare tutti i cattivi, tutti quelli con cui aveva cercato di ragionare senza cavare un ragno dal buco. E quando dice alla Patterson che alla fine della giornata “i cattivi perderanno”, fa riferimento a tutti loro, ma soprattutto a se stesso.
Il sorriso con cui Jax finisce sotto il camion (e notiamo chi guidava il camion, giusto per chiudere un altro cerchio) non è il sorriso di un uomo senza peccati, o che spera di guadagnarsi una qualche pietà divina tramite il sacrificio. Per la prima volta, il sorriso di Jax è quello di un uomo che ce l’ha fatta, che ha trovato la sua strada quando tutte le altre hanno portato solo badilate di sterco. E per quanto dolorosa (è una strada in fondo alla quale i suoi stessi figli lo odieranno), la consapevolezza che sia finalmente quella giusta libera Jax da ogni fardello, permettendogli di staccare le mani dal manubrio e fregarsene della polizia dietro e del camion davanti. Missione compiuta, libertà.
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Arriva dunque a compimento – con l’unica pecca di un effetto speciale orrendo allo schianto col camion, credo fatto da Sutter con Paint… – un percorso iniziato quasi sette anni fa. Non è stato un percorso perfetto o privo di difetti. Inevitabile, per una serie così lunga. Eppure ce lo siamo bevuto con sete inesauribile, con un trasporto raramente concesso ad altre produzioni televisive.
A mio modesto avviso, per Sons of Anarchy bisogna fare un discorso diverso rispetto ad altri cult della recente serialità, da Breaking Bad a Mad Men, passando per True Detective. In questi casi – tutti esempi di televisione eccellente – si è sempre visto il tentativo di andare oltre, di essere “artistici”, per usare un termine abbastanza odioso. Un’inquadratura spiazzante, un piano sequenza lungo dodici minuti, la forza orgogliosamente elitaria di un racconto in costume virato all’amarezza. Quelle serie vivono anche per il gusto di spezzare certi limiti del mezzo televisivo americano, per andare “oltre”. Riuscendoci spesso, peraltro, e da qui le lodi e i premi.
In Sons of Anarchy, invece, ho sempre visto una sorta di umiltà. Sì, umiltà, proprio nella serie con i biker cazzuti e le lunghe ballate rock e folk.
Più che dirigere la storia, Kurt Sutter si è fatto guidare. Fin dalla definizione della struttura di base, presa esplicitamente dall’Amleto di Shakespeare – re morto ammazzato, principe ereditario, zio usurpatore, madre stronza – Sutter ha scelto quasi sempre di usare strumenti molto classici (visivi, di scrittura) per raccontare una storia forte, potente, dritta, senza fronzoli. Poi ovviamente, se duri sette anni, gli orpelli arrivano, le ramificazioni sono inevitabili – i dettagli delle faide tra gang dopo un po’ li ho persi – ma al nocciolo sembra esserci la volontà di fare non tanto “arte”, quanto “robusto artigianato”. La voglia, insomma, di raccontare una storia che possa colpire ed emozionare, la voglia di curare al millimetro i dettagli che contano (primo fra tutti un grande cast), la voglia di arrivare allo spettatore nel modo più schietto e deciso possibile, usando prima di tutto ciò che “funziona”. La voglia, insomma, di arrivare al cuore senza per forza passare dalla testa.
Se poi l’arte arriva – e “arte” è un concetto assai sfuggente e misterioso – è perché siamo noi, gli spettatori, che di fronte alle emozioni provate in questi sette anni non possiamo che dire “be’, ma questo è un capolavoro”.
Lo è, lo è stato, ma è stato un capolavoro umile, duro, grezzo, sudato e sanguinante, lontano dai salotti buoni degli intellettuali o dalle cricche un po’ snob che elargiscono i premi importanti (ne è arrivato solo uno, con golden globe a Katey Sagal).
Alla fine di tutto, comunque, dei premi e delle beghe non ci frega quasi più niente. Abbiamo visto Sons of Anarchy, la nostra vita ne è uscita in qualche modo migliore, e siamo contenti così.
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L’ultima nota, se me lo concedete, non è per SAMCRO, ma per SM, per Serial Minds.
Tra tutte le serie che abbiamo segnalato e sponsorizzato in questi anni, probabilmente Sons of Anarchy è quella che sentiamo più nostra. Perché sì, siamo usciti di testa per Breaking Bad e qualcun’altra, ma eravamo in tanti. Con SoA, invece, siamo sempre stati di meno, siamo un gruppo più raccolto, esigue ma battagliero.
In questi anni tante persone a cui abbiamo rotto i cogl consigliato Sons of Anarchy sono tornate da noi per dirci “cazzo, grazie”, perché senza di noi quella serie lì – di cui non parlava quasi nessuno – se la sarebbero persa.
Non sapendo quanto durerà ancora Serial Minds, non sapendo se prima o poi io e il Villa ci picchieremo sopra Aaron Sorkin o qualcos’altro, non sapendo se un giorno il sito comincerà a darci dei soldini o rimarrà solo un vorace succhiatore di tempo libero, intanto in quattro anni e mezzo abbiamo creato decine di fan di Sons of Anarchy.
Ditemi voi se non è una cosa di cui andare fottutamente fieri…
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