Transparent: la serie di cui tutti parlano (seconda parte) di Diego Castelli
La prima stagione della serie di Amazon conferma le ottime cose viste nel pilot
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PER LA RECENSIONE DEL PILOT DI TRANSPARENT ANDATE A QUESTO LINK
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AH, OVVIAMENTE OCCHIO AGLI SPOILER!
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Qualche settimana fa abbiamo parlato del pilot di Transparent, nuova serie di Amazon incentrata sulla vita di una famiglia dal momento in cui il padre rivela di essere transgender.
Questa prima stagione è stata osannata dalla critica, e dopo un ottimo esordio aspettavo con ansia di vedere il resto degli episodi, per capire se reggeva. Cazzarola se regge!
Si diceva, dopo aver visto unicamente il pilot, che Transparent non parlava solo della decisione di Mort/Maura e di come questa incidesse sui figli, ma più in generale di dinamiche familiari e identità di genere.
Questo rimane tutto vero, ma il quadro va ulteriormente allargato. Dopo aver visto tutti gli episodi si erge un tema più generale, declinato poi secondo le varie prospettive: quello del cambiamento.
Transparent parla soprattutto di persone che cambiano, di mondi che cambiano, e di personaggi costretti a fare i conti con questi cambiamenti. L’occhio cade principalmente, com’è ovvio, su Mort e sui figli: il protagonista, più che mettere in atto un cambiamento di identità (la sua vera identità è sempra stata quella di Maura), mette in atto un’agognata operazione di svelamento, mostrando il suo vero essere (in questo senso è un cambio espressivo, un’interruzione di menzogna); i figli, dal canto loro, vengono influenzati dalle novità sul padre in modo profondo anche se spesso indiretto, cercando di ridefinire alcuni punti cardine della loro emotività e sessualità.
L’amore lesbo di Sarah, le avventure promiscue, omosessuali e transgender di Ali, i problemi emozionali di Josh, sono tutte manifestazioni di qualcosa di latente eppure pressante, che la transizione del padre riesce a sbloccare e far esplodere senza che sia necessario (per lo spettatore) istituire un collegamento verbalmente esplicito.
E’ in questo senso che Transparent diventa in primo luogo una serie sul cambiamento: una famiglia apparentemente stabile e dai ruoli ben definiti viene stravolta non tanto dall'”arrivo” di agenti esterni, quando dall’emersione di contraddizioni che sono rimaste nascoste e sopite per anni, ma che alla fine trovano sbocco in superficie e vanno in qualche modo metabolizzate.
Nel primo articolo dedicato alla serie usavo spesso la parola “normalità”, intesa sia come base narrativa stabile in cui inserire uno scarto che dia benzina alla vicenda, sia per descrivere una messa in scena molto delicata, sussurrata, in cui le questioni – pur importanti – non venivano urlate in faccia allo spettatore, ma suggerite lievemente senza per questo diminuirne l’impatto.
Ora il concetto di normalità va ripreso e ulteriormente approfondito, per parlare di quello che secondo me è il miglior pregio di Transparent. Trovo che l’autrice Jill Soloway abbia evitato con grande coraggio e somma abilità due diverse trappole in cui uno show su un padre trangender poteva incappare. Da una parte è esclusa una facile e banale divisione tra buoni (che accettano di buon grado la nuova identità di Maura) e cattivi (che invece rifiutano il “nuovo Mort” e lo chiamano che ne so, checca o frocio). Un tale approccio sarebbe stato probabilmente più potente in termini emotivi, e più facile da vendere sui giornali. Ma sarebbe anche stato molto più banale e troppo paraculo.
Allo stesso tempo, e questo era ancora più difficile, il messaggio che esce da Transparent non è un messaggio di “normalità”, di “siamo tutti uguali e se ti stupisci sei un omofobo”.
La serie sembra mostrare l’esatto opposto: invece che tentare di raccogliere tutte le diverse espressioni e identità sotto un unico, forzato cappello di normalità, la vicenda di Maura e dei suoi figli va nella direzione contraria, facendo emergere la diversità proprio dove prima stava una (falsa) normalità.
Il tutto, ovviamente, cercando di slegare il concetto di “normale” da quello di “giusto”, un binomio che invece la società occidentale tende a imporre in primo luogo a se stessa, come se l’estraneo e il diverso fossero problemi a prescindere.
Pensateci: capita molto spesso, in caso di difesa dei diritti di transgender e omosessuali, di non sentir parlare di accettazione della diversità, quanto piuttosto di uguaglianza sostanziale. Come a dire che, piuttosto che ammettere l’esistenza del diverso (un diverso che abbia pari importanza rispetto a me), preferisco negare l’esistenza stessa della diversità, affermando che “siamo tutti uguali”.
Questa rischia di essere una clamorosa cazzata, nel momento in cui è chiaramente evidente che siamo tutti diversi. In questo senso, slegando il concetto di normalità da qualunque categoria morale per restituirgli il semplice significato di “usuale, abituale, conforme alla consuetudine e alla generalità”, possiamo dire serenamente che essere trangender non è affatto normale, perché i transgender sono una piccola minoranza rispetto alla totalità della popolazione. Ma il fatto – ecco il salto logico fondamentale – è che essere “diversi” non significa essere “sbagliati”.
Transparent tematizza questo nodo concettuale in modo molto chiaro: con gradazioni diverse, i tre figli di Mort sembrano accettare di buon grado il suo passaggio a Maura. E’ soprattutto Sarah, la figlia maggiore con tendenze gay, a entusiasmarsi di fronte al coraggio del padre. Fin da subito ci sembra dunque quella con la mentalità più aperta e accogliente.
In realtà, nel corso della stagione ci rendiamo conto non tanto che i figli mentono (non è così semplice), quanto del fatto che quell’accettazione è paradossalmente generata da un politically correct che è a sua volta diventato imperante e fagocitante. Al giorno d’oggi capita che l’accusa di omofobia e di intolleranza venga rivolta non solo a chi è chiaramente omofobo e intollerante, ma anche a chi si dimostra semplicemente confuso. In questo senso, i figli di Mort sentono di dover accettare senza fiatare la nuova identità del padre, ma in realtà il cambiamento (riecco il grande tema) li tocca molto più profondamente di quanto non vogliano ammettere, costringendoli a un esame interiore più lungo e travagliato.
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Alla fine dei conti, in una piccola-grande metafora della famiglia e società contemporanea, tutta la prima stagione di Transparent verte su questo: non sulla negazione di uno o più problemi (sull’onda di un acritico “non è successo niente”), quanto piuttosto sulla necessità di affrontare quei problemi, comprenderli, e cercare di trovare un nuovo punto di equilibrio che sia diverso dal precedente, ma comunque soddisfacente e stabile.
L’ultima scena del season finale diventa dunque esplicativa: dopo essere passati attraverso litigi, interrogatori, scioccanti sorprese e aperti litigi, la famiglia è di nuovo riunita intorno a un tavolo. Sicuramente cambiata, ma non per questo meno solida. Diversa, ma non inferiore.