Lie to me: la verità negli occhi (e nella fronte, nelle sopracciglia, negli zigomi…) di Diego Castelli
Primo post “su commissione” di Serial Minds (ringraziamo Fabrizia per il sostegno e l’assidua lettura) e piccolo approfondimento per un bel prodotto. Parliamo di Lie to me, il telefilm del 2009 (terza stagione annunciata per il 2011) che rappresenta l’esordio di Tim Roth nelle long running series. Il grande attore londinese (La leggenda del pianista sull’oceano, Il pianeta delle scimmie, Pulp Fiction) interpreta Cal Lightman, psicologo e scienziato che ha dedicato la sua vita allo studio delle “microespressioni” facciali, dei gesti e delle posture. Partendo dall’assunto che esista una lunga serie di espressioni involontarie e universali (punto che, nella realtà della ricerca, è abbastanza controverso), Lightman e i suoi collaboratori sfruttano le loro abilità per uno scopo preciso: aiutare la giustizia nella caccia ai criminali. Il protagonista non è altro che un rivelatore umano di bugie, capace di cogliere i più piccoli segnali di menzogna sul volto degli interrogati. La sua abilità è tale che il focus della serie non è quasi mai sulla domanda “Pinco Pallino ha mentito o no?”, quanto su “perché Pinco Pallino ha mentito? Per coprire cosa?”.
Lie to me non è una serie rivoluzionaria, nella misura in cui riprende alcuni temi e situazioni già viste in altri racconti televisivi. Pensiamo al dottor House, ad esempio, con cui Lightman ha più di un tratto in comune (il comportamento poco convenzionale, la fede nella scienza, l’aura di genio che lo circonda): il famosissimo diagnosta zoppo ha più volte dato prova di saper leggere i propri pazienti, cogliendo le loro bugie. Allo stesso modo, Patrick Jane (protagonista di The Mentalist) interpreta i segnali non verbali provenienti dalle altre persone per intuire le loro intenzioni e i loro segreti.
Ma rispetto a questi telefilm, Lie to me fa un passo ulteriore. L’elemento decisivo è, in questo caso, il rigore scientifico che accompagna le indagini psicologiche di Lightman. Cal non si limita a generiche intuizioni, frutto di un’abilità innata e per questo unica. Al contrario, le sue tecniche sono precise, quantificabili, insegnabili (ovviamente, una minima predisposizione naturale è bene accetta, come nel caso della più giovane pupilla del protagonista, Ria Torres). Il risultato più evidente di Lie to me è quello di racchiudere in una gabbia di scienza empirica e quantificabile uno degli ambiti più sfuggenti dell’esperienza umana: le emozioni. Lightman (un “uomoluce” che strappa il velo buio della menzogna) è in grado di cogliere sul volto delle sue “vittime” ogni singolo dettaglio del loro mondo interiore, che puntualmente espianta e spiattella sul tavolo grigio della sua sala interrogatori. Di fronte a lui, tutti si sentono come moderni Pinocchio, incapaci di mascherare le proprie intenzioni per colpa di incontrollabili manifestazioni fisiche. Ci si fida così tanto dei suoi metodi esatti, che dopo aver visto tre o quattro episodi di fila viene spontaneo scrutare attentamente il viso di amici e parenti, alla ricerca di sopracciglia inarcate, labbra piegate all’ingiù, inusuali battiti di ciglia e ingiustificati tremolii del mento. Tutti segnali che la serie sottolinea attraverso tecniche di ripresa e montaggio come ralenty e zoom, ma anche usando foto di personaggi famosi, colti a mentire in pubblico nelle stesse modalità espressive descritte di volta in volta dai nostri esperti di bugie (il risultato è tanto ovvio quando divertente: dare sostegno empirico ed “extra-telefilmico” alle proposizioni dei personaggi).
Ovviamente, se la serie di basasse solo su questo avrebbe vita breve. In realtà, intorno a questa idea vincente c’è una buona scrittura, una messa in scena efficace, e soprattutto un lavoro attoriale di spessore. Non solo da parte di Tim Roth, che tratteggia un Cal Lightman carismatico, geniale e sopra le righe. Ma anche da parte degli attori secondari e delle comparse: in un telefilm che racconta le piccole variazioni nelle espressioni facciali, il compito degli attori è quanto mai impegnativo, proprio nella ricerca delle piccole sfumature. Un lavoro che, finora, è stato compiuto egregiamente.
Non mancano alcuni tratti di orizzontalità, elementi narrativi che si protraggono nel corso dei vari episodi (benché, di fondo, Lie to me rimanga una serie investigativa prettamente verticale, cioè con puntate autoconclusive). Tra i più importanti, il rapporto del protagonista con le persone che lo circondano, soprattutto la figlia sedicenne, l’ex moglie e la bella socia in affari. L’abilità di Lightman è una lama a doppio taglio: proficua sul lavoro, potenzialmente distruttiva nei rapporti personali. Provate voi ad avere come amico, padre o marito un uomo che sapete capace di cogliere ogni vostra più piccola bugia…
Per chiudere, giusto per non sembrare troppo buoni, qualche difetto. Su tutti un equilibrio non perfetto tra i due casi di ogni puntata (molto interessante uno, meno efficace l’altro), specie in conseguenza della forza del personaggio di Lightman (i casi che non lo vedono diretto protagonista sono inevitabilmente meno potenti). Si aggiunga una certa freddezza nell’ambientazione, luci bianche e superfici grigie che sono coerenti con la patina scientifica del racconto, ma anche abbastanza monotone sul lungo periodo (un aspetto, quello prettamente visivo, che può avere effetti sorprendenti sul successo o meno di una serie tv). In ultimo, da segnalare la potenziale ripetitività del racconto: in alcuni episodi capita di provare una sensazione di fastidioso deja vu, quando alcune bugie vengono scoperte con analisi troppo simili a quelle viste in precedenti puntate. Un problema forse inevitabile per una serie che focalizza l’attenzione su un campo d’indagine così particolare e specifico.
Come nota del tutto personale, dico anche che la verticalità della narrazione (comune a Lie to me come a quasi tutti i telefilm investigativi) mi crea sempre un po’ di insofferenza: trovo che la forza della serialità televisiva stia in ciò che può essere veicolato in mesi e anni di racconto, piuttosto che nei 40-50 minuti di un singolo episodio a sé stante. Ma qui siamo davvero nel parere personale :-D
2 commenti a Lie to me: la verità negli occhi (e nella fronte, nelle sopracciglia, negli zigomi…)
Grande diego, pienamente d’accordo con la tua analisi, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti negativi (su quelli positivi risultava troppo semplice darti ragione, la serie mi piace da impazzire…non ne avrei fatta richiesta, eheh). Trovo in effetti particolarmente sbilanciato il peso dei due casi, probabilmente perchè l’intero punto di forza della serie ruota esclusivamente intorno a Lightman. I personaggi che affiancano Cal sono puro contorno e anche quando si tenta di caratterizzarli un attimo di più attraverso i casi paralleli (vedi Ria Torres o la stessa Gillian Foster) ci si ritrova inequivocabilmente a fare i conti con LUI, senza essere in grado di cogliere qualche tratto più profondo degli altri personaggi. Non so se rendo l’idea in modo chiaro: ad esempio, mentre in House – a cui tu hai fatto egregiamente riferimento – nel trio Cameron-Foreman-Chase (come anche nel caso della Cuddy e Wilson) ognuno ha un ruolo ben definito e autonomo, in “Lie to me” ho la sensazione che l’evolversi dei personaggi spalla dipenda esclusivamente da Lightma. Ma magari è una mia sensazione.
Poi vabbè, trovo geniali le sottigliezze, come i continui giochi di parole “lie-to-man/lightman -> mentire a qualcuno/l’uomo che fa luce (sulla verità)”…ho avuto un’infanzia difficile, ahah!
Serie geniale, che non mi ha fatto provare nostalgia per l’House delle prime tre stagioni e che ha colmato il vuoto pneumatico di “The mentalist”, che mi ha sempre lasciata insoddisfatta, sin dal primo episodio.
Mentalist è una serie un po’ più anziana e decisamente più lenta, quindi finisce col fare un po’ più ascolto sul totale del pubblico, ma forse ha meno presa sul pubblico più giovane. A me piace tanto il personaggio, perché i giochini mentali che fa mi affascinano molto (e poi mi piace un botto Amanda Righetti, che fa una dei suoi colleghi).
Hai ragionissima a dire che gli assistenti di House sono molto più caratterizzati di quelli di Lightman. Ogni tanto ci han provato a dargli più spessore, ma poi arriva Tim Roth e ti dimentichi di tutto. Ad ogni modo confido nel futuro, perché comunque il ruolo dei personaggi (la nuova arrivata, la collega affascinante con cui si spera che quagli, il collega simpatico con qualche ombra etica) è potenzialmente ricco di spunti (pur senza essere particolarmente innovativo).
Staremo a vedere…