Gomorra – La Serie: no, non è una fiction di Marco Villa
I primi due episodi di Gomorra non deludono
Poche storie: Gomorra – La serie è l’evento televisivo italiano dell’anno, almeno per quanto riguarda il mondo delle serie tv. Annunciata da secoli, accompagnata da un hype sempre più grosso, Gomorra vede ovviamente il nome di Roberto Saviano come sacro protettore e quello di Stefano Sollima come showrunner e regista. Se il primo è fondamentale per quello che è stato fino a oggi Gomorra, il secondo è quello cruciale per lo sviluppo e l’identità della serie. Del resto, l’hype di cui sopra è dovuto a Romanzo Criminale, l’unica vera serie prodotta in Italia ad essere all’altezza di quelle internazionali (sì, anche Boris è una bomba, però è tutto un altro discorso), che aveva sempre in Sollima il responsabile ultimo. E dopo le prime due puntate, andate in onda su Sky Atlantic il 6 maggio, si può dire tranquillamente che l’attesa era ben riposta: Gomorra parte benissimo e con un potenziale tutto da esprimere nei dieci episodi che mancano.
La storia ruota intorno al clan dei Savastano: il grande boss è Don Pietro, affiancato dalla moglie e dal figlio incapace. L’uomo forte del gruppo è Ciro, spaventato dall’apparente perdita di forza del boss e voglioso di emergere. Nell’intervista che gli ho fatto qualche giorno fa, Sollima ha detto chiaramente in che modo si è posto nei confronti della serie: da una parte la necessità di staccarsi da storie e personaggi del film di Matteo Garrone, dall’altra la volontà di guardare alle grandi serie internazionali, pur mantenendo una propria unicità.
Le prime due puntate di Gomorra dimostrano che entrambi questi obiettivi sono stati raggiunti. Nell’arco di poche decine di minuti i personaggi principali vengono delineati molto bene, senza mai esagerare con stereotipi e caratterizzazioni forzate: Ciro è un soldato tormentato, che non ha ancora trovato il proprio posto nel mondo; Pietro Savastano è un boss in decadenza, accartocciato su se stesso e sul terrore della propria fine; il figlio Genny, per quanto dipinto come essere inutile, ha dei sussulti di coscienza e di azione che non lo appiattiscono sulla figura del totale idiota; Imma, la donna del boss, sembra una versione riveduta e corretta di Gemma Teller di Sons of Anarchy. Proprio la serie di Kurt Sutter sembra essere al momento il miglior riferimento, con la storia di un boss a un passo dal mollare e un giovane sospeso tra lealtà e necessità di trovare il proprio posto al sole (ahahah). Parlo di riferimento, ma visto da lontano: la specificità italiana c’è eccome, portata soprattutto dal pathos e del melodramma che derivano automaticamente dai dialoghi in dialetto.
Come per Romanzo Criminale, va lodata la scelta di puntare su un casting che fa a meno dei faccioni noti e stranoti di cinema e tv: Marco D’Amore è perfetto nel ruolo di Ciro e Fortunato Cerlino ha il volto giusto per essere il boss, l’uomo duro, ma non necessariamente il cattivo che riconosci al primo sguardo in quanto tale.
Se l’obiettivo era realizzare un prodotto di livello internazionale, senza dubbio è stato raggiunto. Paragonata alle serie straniere, Gomorra dimostra di poter far parte di quel campionato: non è la cosa migliore che si sia mai vista, ma è senz’altro più di un buon prodotto. Se invece la si paragona a quanto realizzato mediamente in Italia, siamo chiaramente di fronte a una serie di un altro pianeta.
Perché seguirla: perché (a scelta) è una serie bomba per gli standard italiani e una bella serie per gli standard internazionali
Perché mollarla: perché siete tra quei simpaticoni che pensano che sia una brutta pubblicità per l’Italia