Black Box – Neurologa E bipolare di Diego Castelli
Uno show che punta in alto, molto in alto, troppo in alto?
Non saprei catalogare con esattezza Black Box, nuovo drama di ABC iniziato lo scorso 24 aprile. Probabilmente dovremmo parlare di “medical”, considerando che il personaggio principale è effettivamente un dottore – per la precisione un neurologo – e che pare evidente la presenza di specifici casi di puntata.
Allora stesso tempo, però, è altrettanto evidente che Black Box punta tutto sulla vita della protagonista, che non è esattamente il classico medico: in parte perché è una scienziata di fama internazionale, ma soprattutto perché è affetta da disturbo bipolare, quella particolare condizione psichiatrica che altri telefilm in passato hanno trattato in maniera più o meno diretta (l’esempio più recente che mi viene in mente è Shameless, ma se ne potrebbero fare altri).
Catherine Black, interpretata da Kelly Reilly, tiene nascosta al mondo la sua condizione, nota solo alla famiglia di suo fratello e alla sua psichiatria (Vanessa Redgrave). Ma il suo vero problema non è il rischio di essere scoperta dai colleghi o dal fidanzato che vorrebbe sposarla: il problema di Catherine solo le ricadute. Come un alcolista che conosce il valore della sobrietà ma è anche irresistibilmente attratto dalle sensazioni generate dall’alcol, Catherine sa perfettamente che prendere le sue medicine la mantiene stabile e “normale”, ma sa anche quanto le piaccia liberarsi delle pillole per sperimentare il senso di euforia e creatività che solo il lato “entusiasta” del bipolarismo è in grado di offrirle.
Black Box ha un pregio immediato, che non sempre si trova nelle serie generaliste: quello di voler trattare temi difficili, anche pesanti, ma potenzialmente assai fecondi in termini narrativi e di riflessione. Il tema principale di Black Box non è tanto la malattia in sè, che pure rappresenta un elemento importante della storia. Ciò che davvero conta è il concetto di identità, di ciò che rende una persona quello che è (e quello che non è).
In questo senso, Catherine è continuamente sballottata tra la normalità imposta dalla società (anche attraverso i medicinali) e la sua condizione naturale, che è quella del bipolarismo. Il quadro viene reso interessante dal fatto che nessuna delle due vie è descritta come quella interamente giusta: se altre serie e film ci hanno abituato a considerare il disturbo bipolare come niente altro che un complesso problema, Black Box cerca di mostrarne anche i lati in qualche modo positivi, intesi come una sensazione di benessere e di produttività che la protagonista non è in grado di provare quando è sotto il controllo delle pillole. Ma quindi siamo di fronte a una serie che celebra il genio e la diversità sulle regole imposte dalla “massa”? Ovviamente no, sarebbe troppo semplice e, nel caso specifico, anche eticamente discutibile. Accanto all’euforia e al genio, infatti, Catherine sperimenta con violenza anche l’altra faccia della medaglia bipolare: l’incapacità di controllare i propri comportamenti, il rischio di autodistruggersi, e la concreta possibilità di allontanare da sé gli affetti che più contano (a questo proposito c’è anche un twist familiare che non svelo, anche se è intuibile quasi subito).
Insomma, di sugo ce n’è, in Black Box, e la sensazione è che ci sia effettivamente qualcosa che valga la pena raccontare. Purtroppo, però, la messa in scena riesce solo a tratti a reggere il peso di questo impianto concettuale.
Un po’ perché certe scelte registiche sembrano discutibili – specie nella rappresentazione della malattia, che in alcuni punti sembra suona troppo artificiosa, se non addirittura ridicola – e un po’ perché il pilot è afflitto da una generale pesantezza. La vicenda di Catherine non è di quelle semplici, e quindi nessuno pretende la commedia e la risata. Ma la sensazione è che questo episodio sia “troppo” pesante, incapace di trovare un paio di sfumature più leggere che possano renderlo più digeribile. In teoria questa funzione dovrebbe essere svolta dai casi medici di puntata (ce ne sono addirittura due, nel pilot), che però non riescono a staccare adeguatamente l’attenzione dalla vicenda personale della protagonista, che rimane l’unico fulcro di tutta la vicenda.
E’ un problema non tanto per questo episodio, bensì per il futuro della serie. Ho visto volentieri questi quaranta minuti, ma la prospettiva di altri dieci, venti o trenta episodi tutti incentrati su una protagonista così disperatamente tesa tra ricerca della felicità e propositi suicidi, potrebbe essere davvero troppo. Soprattutto, potrebbe essere pericolosamente deviante per la tv generalista americana, con rischio di ascolti bassi e cancellazione anticipata.
E a tutto questo, a mo’ di postilla, ci aggiungo anche che l’interpretazione della Reilly non mi ha fatto impazzire: il compito è evidentemente arduo, considerando a quali sbalzi emotivi va incontro il personaggio di Catherine, ma in più occasioni sono stato colto da quella fastidiosa sensazione per cui ti accorgi che l’attore/attrice che hai di fronte sta in realtà recitando. E tutto il pathos va a farsi benedire.
Perché seguirla: temi e riflessioni messi sul piatto sono più interessanti della media dei drama.
Perché mollarla: una pesantezza di fondo che rende la visione faticosa, specie pensando al medio-lungo periodo.
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