6 Agosto 2013 1 commenti

The Killing – Il finale della terza stagione di Diego Castelli

Una serie data per morta, e che risorge così bene. C’ho i lacrimoni.

Copertina, Olimpo, On Air

The Killing 3 - finale (2)

INUTILE DIRE CHE CI SONO SPOILER PIUTTOSTO SERI SUL FINALE DI STAGIONE.

Ora che è finita possiamo dirlo, e perdonate se userò i termini tecnici della tradizione semiotico-filologica di Strasburgo: la terza stagione di The Killing è una figata totale.
E non solo perché ha colmato un vuoto a cui credevamo di doverci rassegnare, ma proprio perché è stata bella di suo, ben superiore alla seconda.

Mi rendo conto che dire “ben superiore alla seconda” possa suonare un po’ forte, considerando che anche l’anno scorso non abbiamo risparmiato gli elogi per la serie di AMC. Ma dopo aver visto la terza stagione, la seconda finisce col rientrare inaspettatamente nel magico mondo del “brodo allungato”. Un brodo buonissimo, sia chiaro, costruito con perizia fino all’ultimo, magistralmente interpretato, e capace di reggere l’arduo compito di tenere in piedi per due anni un caso criminale relativamente “banale” (l’omicidio di una ragazza) che moltissimi altri telefilm americani avrebbero risolto in 42 minuti netti, magari con l’aiuto di una incredibile squadra (fanta)scientifica o grazie alle intuizioni fenomenali di un detective solo-apparentemente-suonato. Ma sempre un brodo allungato, concepito per tirare in lungo una storia che nell’originale europeo era più rapida e meno articolata.

The Killing 3 - finale (3)La terza stagione, invece, libera dal fardello narrativo della precedente, è apparsa subito come qualcosa di nuovo e fresco. Non rivoluzionario, evidentemente, perché The Killing è The Killing e prevede quei due gran personaggioni di Sarah Linden e Stephen Holder impegnati a dare la caccia a un misterioso omicida. Ma abbastanza libera da potersi permettere strutture narrative diverse e approfondimenti psicologici più arditi. Lo sviluppo del rapporto tra Sarah e Holder è magistrale, più intenso e gratificante di quello visto nella seconda stagione, e ci porta attraverso una montagna russa di apparenti felicità, bruschi risvegli e decisioni potenzialmente pessime (sì, il tentato limone di Holder è una cosa che ancora mi lascia sveglio la notte, anche se poi lui ci ha pure scherzato sopra).
Per quanto riguarda il caso di stagione, poi, sono state prese decisioni coraggiose e intelligenti. Eliminati praticamente tutti i riferimenti al caso di Rosie Larsen (che pure poteva lasciare qualche strascico), gli autori hanno optato per un’indagine completamente nuova, basata sulla stessa struttura – un omicidio, gli indizi, i sospettati e la caccia all’uomo – ma capace di accelerazioni, rallentamenti, sorprese e deviazioni ancora più marcati rispetto al passato. Tanto per dirne una: all’inizio sembrava che Callie fosse in tutto e per tutto la nuova Rosie, ma in realtà l’attenzione è stata più volte spostata e riposizionata.
La morte di Bullet (che sembra un’idea di George Martin), l’apparente risoluzione anticipatissima del caso, la vicenda carceraria di Ray Seward, sono tutti elementi di rottura, di scardinamento, che allargano i confini del racconto strettamente poliziesco arricchendolo di sfumature e riflessi.

Ed è proprio la storia di Ray a meritare una menzione particolare. Pensata per aggiungere dramma e thriller alla trama principale, un po’ come era successo con le vicende familiari della famiglia Larsen, riesce di fatto a diventare il caso di maggior interesse, grazie a un tema di grande presa (la pena di morte), sviluppato con sensibilità e intelligenza, e costruito attorno a un attore che è un fottuto genio: il Ray Seward di Peter Sarsgaard è meraviglioso, un “cattivo” che nella prospettiva della morte non trova tanto la redenzione, che sarebbe banale, quando qualcosa di più primitivo e meno scontato: la paura, lo smarrimento, la lenta e dolorosa fine dalla speranza. Le spacconate di Ray, lentamente tramutate in rabbia e terrore all’approssimarsi del patibolo, sono un percorso The Killing 3 - finale (4)insieme disturbante e affascinante, che riesce a toccare due distinti apici emotivi a brevissima distanza: l’incontro di sguardi col figlio, ultimo momento di sollievo prima della forca, e poi la morte stessa, agonizzante, troppo penosa persino per la guardia che fino a quel momento aveva trattato Ray come una pezza da piedi. Soprattutto, una morte inaspettata, perché per tutta la stagione avevamo sperato che Sarah riuscisse a salvare il suo ex nemico. Ma purtroppo questo è The Killing, mica un crime qualunque.

La storia di Ray si porta via tutto il terz’ultimo episodio, a sottolinearne l’importanza anche al di là della semplice matrice investigativa dello show, e poi si arriva al doppio finale. Qui se volete si ritorna più sul classico, con la chiusura di tutti i fili rimasti aperti, la ripresa del caso che sembrava bello che chiuso, il lento ma deciso riordino di tutti i pezzi del puzzle. Eppure, anche qui, a importare non è tanto la sorpresa legata all’identità dell’assassino. Perché diciamolo, in questi casi si finisce col sospettare un po’ di tutti quelli che vedi almeno per due scene, e non c’è modo di stupirsi fino in fondo. No, quello che conta sono ancora una volta i dettagli, le sfumature. Il volto di Linden quando si rende conto della verità, Holder che prende per il culo quelli degli Affari Interni (sorta di parentesi comica ma comunque calzante), ma soprattutto il lungo dialogo tra Sarah e Skinner. E’ una scena che può anche apparire strana, un po’ storta, nel suo essere così “normale”. Lo spettatore rimane un po’ disorientato di fronte al modo con cui la protagonista si rivolge all’assassino, in uno scambio di battute che sembra quasi un litigio tra innamorati. Ma è proprio questo il punto: più della risoluzione del caso in sé, ci interessa vedere il compimento del percorso psicologico di Linden, che durante tutta la stagione (e anche prima) non ha fatto altro che cazzate: ha fatto catturare l’uomo sbagliato per l’omicidio di Tricia Seward; non è stata in grado di scagionare Ray una volta accortasi dell’errore; ha arrestato Mills che non c’entrava nulla con gli omicidi delle ragazzine. Soprattutto, non si è accorta che l’uomo di cui si stava innamorando (meglio, l’uomo che stava permettendo a se stessa di amare) era proprio il bastardo che lei e Holder stavano cercando. Insomma, un fallimento pressoché continuo, da parte di una che The Killing 3 - finaleogni volta che sbaglia va in paranoia per anni. Una sconfitta costante, che dà la nausea, che fa tremare la mano che regge la pistola, e che infine fa commettere l’ultimo errore, una pallottola che creerà parecchi problemi ma che non poteva non essere sparata, perché ogni tanto una poliziotta deve fare quello che una poliziotta deve fare.

Sta forse qui la fascinazione vera di The Killing, il motivo ultimo per cui la troviamo una serie tanto piacevole quanto frustrante: Sarah e Holder ci sembrano persone, persone normali, vere, persone che sbagliano in continuazione, che mandano la propria vita a puttane ogni volta che possono, e che hanno bisogno di svariati episodi in più dei loro cugini telefilmici per arrivare al traguardo. Traguardo che però arriva, perché i due compensano la mancanza di genialità alla Sherlock Holmes o alla House con una caparbietà e un senso del dovere che hanno quasi del patologico. Persone a cui non vorremmo assomigliare, ma che non possiamo che amare alla follia.

PS Non si sa ancora se The Killing avrà una quarta stagione. Sia chiaro, comunque, che se non c’è m’incazzo.



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