Community: il bilancio della stagione Harmon-free di Diego Castelli
Cerchiamo di fare un ragionamento a mente fredda
Bene, è finita la quarta stagione di Community e bisogna tirare qualche somma. Bisogna perché la prima stagione non supervisionata da quel geniaccio di Dan Harmon ha prodotto sentimenti contrastanti, momenti di sollievo e baratri di angoscia, attimi di diffidenza e improvvise consapevolezze zen.
Per rendersene conto non serve andare altrove, basta rimanere su Serial Minds. Il povero Villa aveva iniziato la stagione dicendo “Avevamo paura, invece Community riparte bene”, e aveva proseguito con un più ambiguo “Community non è più Community“. Che è inquietante, voglio dire, come se uno viene da te e dal niente ti dice “guarda che tua madre è un uomo”. Uno ci rimane male, si fa anche delle domande.
Per parte mia non sono stato meno schizofrenico, con tante capatine di Community nei serial moments, ma quasi sempre senza quell’entusiasmo totale che accompagnava certi episodi delle scorse annate.
Insomma, abbiamo avuto il nostro bel da fare nel gestire emotivamente una transizione non semplice e tutt’altro che inavvertibile. Ora, dopo tredici episodi, possiamo forse concludere col più democristiano dei “poteva andare molto meglio, ma onestamente anche molto peggio”.
Senza voler tornare nello specifico di ogni singolo episodio, cosa che bene o male abbiamo già fatto in tante sedi diverse, una visione finalmente globale e distaccata della stagione mette in evidenza il maggiore difetto, cioè la volontà di strafare, a sua volta mossa da una certa paura di “rimanere indietro”.
Community non è mai stata una serie dai grandi ascolti, ma ha saputo costruirsi una base di fan fedelissimi e adoranti, di cui la rete ha dovuto tenere debito conto al momento di decidere di salutare Dan Harmon. Ecco allora che i suoi successori hanno sentito il dovere etico-commerciale di rimanere nel solco tracciato dal maestro, un solco fatto di assurdo, metatestualità imperante, improvvise botte di stile straniante. E’ da qui che nascono le puntate coi pupazzi, le guest star a loro modo nerdissime (tipo Luke Perry), il folle piano di Chang per la riconquista del college, la fusione dimensionale del season finale.
Per farla breve, abbiamo percepito con chiarezza la voglia di non perdere il confronto col vecchio autore, è come se avessimo visto i nuovi sceneggiatori seduti attorno a un tavolo con un foglio bianco, una matita e sulla labbra la domanda “bene, e ora come li mandiamo fuori di testa?”
Questo è un intento lodevole, per parte loro, e qualche frutto l’ha anche dato. Cercando di levarmi di dosso ogni pregiudizio da fan incazzato, non posso negare che ci siano stati momenti interessanti in questa stagione. E per fare un esempio rimango proprio sul finale, dove lo scontro inter-dimensionale mi è parso vero-Community, con anche la capacità di ricicciare di nuovo il tema del paintball, sorta di divinità pagana per tutti i fan.
Certo, questa spinta quasi innaturale verso la coerenza col passato ha prodotto anche mostri non indifferenti, e alla base di tutto mi sembra esserci un unico vero problema: l’incapacità per i nuovi autori di tenere le fila del discorso come riusciva a fare Harmon. Perché non è che il vecchio Dan producesse solo episodi capolavoro, anche prima c’erano le puntate “medie”. Ma non mancava mai la sensazione che la struttura fosse solida e incrollabile. Magari l’idea di questa o quella puntata era meno brillante, e magari i singoli sketch erano più banali di altri, ma l’impianto narrativo era sempre impeccabile.
Quest’anno invece abbiamo assistito a botte di discreta creatività accanto a improvvisi blackout. Blackout narrativi, come la scelta inutile e dannosa di mettere insieme Britta e Troy (raramente ho visto relazioni amorosi così buttate lì in una comedy). Ma anche blackout puntuali come certi spiegoni delle battute. E’ come se a Dan Harmon venisse tutto naturale, mentre i suoi successori dopo un po’ che si sforzano devono tirare il fiato, facendo immancabilmente delle boiate.
Anche in questo caso si può citare il finale, dopo il momento di consapevolezza strappalacrime di Jeff appare troppo teen drama per essere Community, e va un po’ a rovinare un episodio tutto sommato piacevole.
Insomma, se una volta avevamo buone puntate intervallate da capolavori, ora abbiamo episodi medi intervallati da buoni guizzi. Che è un peccato, considerando cos’era Community fino all’anno scorso, e quanti fiumi di amorevole (e virtuale) inchiostro ci ha fatto spendere su queste pagine. Detto questo, non è nemmeno giusto fare gli apocalittici: Dan Harmon ha fondato un mondo e un sistema di personaggi che continua ad avere una sua forza specifica anche dopo di lui (e anche dopo Pierce, che l’anno prossimo non ci sarà più). Una forza meno dirompente, certo, ma sufficiente a un altro rinnovo della serie, che tornerà con una quinta stagione da tredici episodi.
Una volta questa notizia ci avrebbe fatto esultare come scimmie affamate di fronte a una banana, oggi invece annuiamo solennemente mantenendo compostezza. Ma la soddisfazione rimane, perché quel vecchio auspicio, “six seasons & a movie”, è ancora valido, Harmon o non Harmon.
Cioè per dire, io sono alla quarta stagione di Glee perché la prima era una figata. Non sono uno che si arrende facilmente, diciamo…