The Following Season Finale – Il commento di Diego Castelli
Minchia che banalità il titolo di questo post…
Per un serialminder non c’è nulla che segnali l’arrivo dell’estate come la fine delle serie dell’autunno e della primavera.
Questa settimana son ben tre i telefilm (tra quelli che seguiamo qui a Serial Minds) che fanno ciao ciao con la manina: The Following, The Americans e Parks & Recreation.
Cominciamo con The Following, forse la serie più chiacchierata dell’anno. Che poi le più chiacchierate in assoluto, cioè quelle che stimolano la produzione del maggior numero di parole, sono probabilmente altre, tipo Game of Thrones, ma nessuno si sogna di criticare sul serio Game of Thrones, pena una giustificata emarginazione sociale.
Con The Following è andata diversamente, perché è già dal secondo episodio che la gente si azzanna per decidere se è una bella serie o una ciofeca totale. Qui su Serial Minds vi siete azzuffati più voi che noi, ma è solo perché il Villa non è andato avanti a vederla, altrimenti sai le risse…
In tutto questo furore dialettico il nostro Ryan Hardy ha proseguito la sua lotta ancestrale col perfido e deviatissimo Joe Carroll, lotta che è arrivata a conseguenze anche abbastanza imprevedibili.
Se ricordate, il maggior interesse “accademico” per The Following risiedeva proprio nel suo essere una forma di crime totalmente orizzontale, slegato dal concetto del caso di puntata, e per questo molto diverso dalla maggior parte dei crime della tv generalista americana, salvo rare e spesso infruttuose eccezioni (come Chicago Code, la cui cancellatura fa ancora male). In questo senso anche Hannibal sta dando un gran bel contributo, ma ne riparliamo settimana prossima.
Questo approccio, unito al gusto tipico di Kevin Williamson per un certo livello di metatestualità (che si parli di film horror, teen drama o, appunto, serie investigative), ha dato vita a un circo alla costante ricerca di fuochi d’artificio, che è insieme la prima forza e la più grande debolezza della serie.
Se da una parte è facile appassionarsi a una vicenda in cui rapimenti, sparatorie e morti eccellenti sono all’ordine del giorno, dall’altra questa bulimia narrativa presta il fianco a una dose necessariamente maggiore di squilibri, e questo al di là di precisi dubbi su questa o quella scelta (tipo che James Purefoy non è mai riuscito a essere del tutto convincente come capo di una setta di esaltati, e comunque non regge il confronto con Kevin Bacon).
Si può fare un esempio banalissimo: la necessità di rendere Carroll un cattivo “difficile da acchiappare” (altrimenti l’orizzontale va a puttane), unita all’altrettanto pressante necessità di creare una show sempre svelto e incalzante (sennò la gente se ne va), trasforma quasi obbligatoriamente i poliziotti in una massa di imbecilli. Un certo senso del ridicolo che ha cominciato a circondare Hardy, sempre capace di far morire o rapire chiunque si trovi a proteggere, e che è sicuramente figlio di qualche errore di scrittura, ma anche di una serie di paletti imposti dal tipo di serie scelto e dal contesto in cui si trova a operare.
Questo è stato il principale problema degli episodi centrali della stagione, ben più grave di certi errori di raccordo o di procedura che i detrattori hanno cominciato a sottolineare fin da subito, dimenticando che qualunque serie o film può essere distrutta usando in maniera maniacale la lente del realismo (non ricordo se era qualcuno di voi o se l’ho letto altrove, ma ho sentito lamentarsi di come Ryan teneva la pistola prima di entrare in una stanza… ma su, ce l’avete presente la potenza dello zoom di CSI? Vogliamo paragonare puttanata con puttanata?).
Il fatto di tenere sempre viva la lotta a Carroll, senza poterlo mai raggiungere, ha finito col creare una paradossale verticalità, uno schema per cui si prende uno dei followers, gli si fa fare una qualche azione malvagia e si fa in modo che Ryan e l’FBI debbano averci a che fare, tipicamente mentre la moglie o il figlio di Carroll vengono rapiti, poi rilasciati, poi rapiti e poi rilasciati.
Insomma, anche in quell’atmosfera un po’ gigiona in cui la serie stava consapevolmente navigando (un po’ come Williamson aveva già fatto con Scream), c’era il rischio della ripetitività, per nulla mitigata dalle vicende interne alla casa di Carroll, di cui non ce n’è mai fregato più di tanto.
Sta qui secondo me la causa principale di una certa perdita di ascolti della serie: al di là del calo fisiologico tipico di tutti gli show così orizzontali e così pubblicizzati alla vigilia, The Following non è riuscita a trattenere un certo tipo di pubblico che a un certo punto la fine dal caso la vuole vedere, a meno di invenzioni rivoluzionarie che evidentemente non ci sono state. Tanto più che il caso non è nemmeno uno di quelli alla The Killing o alla Twin Peaks, in cui il mistero su “chi ha ucciso” può tenere in piedi la serie quasi da solo (è quello che successe proprio con Twin Peaks, successone clamoroso i cui ascolti calarono vertiginosamente proprio quando la ABC fece pressioni su David Lynch per svelare l’assassino di Laura Palmer a metà della seconda stagione).
Fortunamente, per chi ha stretto i denti la correzione in corsa è arrivata, e le ultime due-tre puntate sono risalite di brutto, senza uscire dal solco già creato, ma tirando le fila del discorso in maniera anche più decisa del previsto. La svolta inizia più o meno dalla morte di Roderick, già di per sè abbastanza inattesa, e passa attraverso quella di Jacob, il seppellimento e poi la morte della Parker, e soprattutto alcuni comportamenti di Ryan, riuscito miracolosamente a tornare dalla parte dei fighi.
Sì perché nel disegno di Carroll Hardy è sempre stato l’eroe, un eroe che però ai nostri occhi stava diventato un povero mollaccione. Con gli ultimi episodi, dopo aver salvato Joey, Ryan ha risalito la china e, per quanto la sua anima tormentata abbia anche un po’ fracassato i maroni, ha dato prova di avere le palle: vedere il trattamento riservato al tizio che conduce lui e Mike alla povera Debra, seppellita e ormai morta nel bosco. Con uno slancio da giustiziere cazzutissimo, Kevin Bacon indurisce la mascella, accende la faccia da psicopatico e spara in testa al bastardo.
Cazzo. Che. Soddisfazione.
Ed è di questi dettagli e piccole sorprese che vive il finale di stagione di The Following, ancora improntato a stupire in maniera chiara e spettacolare fino al rischio di scivolare nel pacchiano, ma trovando una serie di svolte sufficientemente efficaci.
Il finale-finale, poi, lascia piacevolmente interdetti: ormai ridotta l’importanza del gruppo di followers, la sfida si gioca tutta tra Joe e Ryan, dove l’assassino aspirante scrittore sfrutta idee abbastanza facili come lo scontro definitivo nella casa del faro, scenario talmente classico da essere persino riconosciuto come tale dai personaggi.
La vera sorpresa sta nel fatto che Carroll sembra davvero perire nelle fiamme, non lo vediamo fuggire e ci vengono date informazioni abbastanza precise sulla sua morte, tra tracce di DNA e calchi dei denti. Come se non bastasse, alla fine dell’episodio Ryan e Claire vengono colpiti a morte dall’ultima follower di Joe, a cui era stato affidata fin dall’inizio la stesura del capitolo finale, come se Carroll avesse previsto sia la sua morte sia l’ultimo terribile colpo di coda.
Ora, trovo difficile pensare che Joe sia veramente morto, anzi mi pare quasi impossibile. Ma il cliffhanger ha funzionato, affiancando elementi classici ad altri di maggiore sorpresa, e lasciando lo spettatore nella più totale necessità di sapere cosa ne sarà di Ryan e Claire.
Alla fine, guardando indietro, vediamo una stagione piena di ritmo, non priva di sorprese, talvolta assai bislacca ma anche lontana dai soliti crime triti e ritriti che mi sfracellano le balle dopo due giorni. No, non è Twin Peaks, lasciamo stare i santi, ma a conti fatti è più o meno quello che speravo di ottenere, quindi approvo tutto, puttanate comprese, e sono pronto alla seconda stagione.