Monday Mornings – Dove si cazziano i medici di Diego Castelli
Perché se sbagliano poi la gggente MUORE!
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Dai, niente introduzioni strane, andiamo al sodo.
Parliamo di Monday Mornings, la seconda serie medical nel giro di dieci giorni a partire con un mezzo flop di ascolti. Dico “mezzo” perché l’altra era Do No Harm, il cui fallimento è stato bello pieno, tanto che l’hanno già cancellata.
Con Monday Mornings la partenza non è stata “così” tragica, ma la vera differenza è che mentre Do No Harm ci aveva interessato poco, il pilot di Monday Mornings ci è piaciuto parecchio. E quindi siamo già qui con la paura che lo chiudano.
Partiamo col dire che il nuovo show di TNT ha un pedigree di tutto rispetto: il creatore è David E. Kelley, padre tra le altre cose di Ally McBeal e Boston Legal, e che aveva già lavorato a un medical di successo come Chicago Hope. Quindi non proprio l’ultimo degli stronzi. Se a questo aggiungete un cast assai robusto, che comprende volti ben noti come Alfred Molina, Ving Rhames, Jamie Bamber e Jennifer Finnighan, capite bene che le aspettative erano piuttosto alte.
Il concept è invero abbastanza semplice: i soliti medici/chirurghi alle prese con le difficoltà del lavoro e le beghe della vita privata. C’è però una fondamentale differenza, abbastanza perché Kelley possa bullarsi con Shonda Rhimes dicendo “oh, guarda che la mia serie è un sacco diversa dalle altre”. Qui il fuoco del racconto è sulle “mornings” del titolo, le mattine in cui i medici si riuniscono nell’aula magna dell’ospedale per discutere dei casi più controversi della settimana, con particolare attenzione per quelli che sono andati male. In pratica è il momento in cui i personaggi prendono coscienza dei propri sbagli, vengono rimproverati ed eventualmente sanzionati, e permettono di far partire un po’ di musiche struggenti e primi piani sofferti. Abbiamo già visto queste riunioni di autoanalisi in altri medical, ma è la prima volta che diventano elemento principale del racconto.
Settato questo background, e sottolineato seppur velocemente che gli aspetti tecnici convincono pienamente (su tutti la fotografica bluastra e metallica, pienamente drammatica), il pregio maggiore di Monday Mornings sono i personaggi secondari. Per la verità, nei medical così corali non è sempre facile stabilire chi sia il vero protagonista, a meno che non ci sia una Meredith Grey che dà il nome alla serie. Ma possiamo comunque dire che il personaggio principale, nonché più classico, è il dottor Tyler Wilson (Bamber), il neurochirurgo belloccio e tormentato che se si chiamasse Derek Shepherd non ci sarebbe niente di strano. Lasciato perdere lui, che pure nel primo episodio ha una vicenda personale interessante, il meglio viene dagli altri. Cito i tre che preferisco.
Il primo è Harding Hooten-Alfred Molina, il primario, il capo, quello che rimprovera con durezza ma sa anche dare conforto o speranza ai parenti dei malati. E’ un personaggio spesso, caratterialmente e fisicamente, che Molina interpreta con fermezza, carisma, e una simpatia per nulla forzata.
Il secondo è Jeorge Villanueva-Ving Rhames, traumatologo che sembra uscito da un film di Mission: Impossibile (e in effetti è così), senza peli sulla lingua, con un etica professionale incrollabile, una capacità diagnostica quasi soprannaturale, e una grande capacità empatica.
Il terzo, che è già il mio preferito, è il dottor Sung Park (Keong Sim), un medico coreano che parla poco, con un accento pesantissimo, e che si caratterizza per la totale freddezza con cui affronta il lavoro (bene) e i pazienti (meno bene). Non vorrei bestemmiare, nel pilot piazza due-tre colpi di classe che ricordano l’approccio burbero del mai dimenticato House, robe tipo:
«Dottore, qual è l’ipotesi peggiore?»
«Morte. Ipotesi peggiore sempre morte.»
Dai, gli vuoi subito bene a uno così.
Questi sono i miei preferiti, ma anche gli altri/e se la cavano benissimo, così che nel complesso Monday Mornings diventa uno show con tanto di classico, ma con quel tocco personale che Kelley ha sempre saputo mettere nei suoi show. Certo, non c’è la ricerca surreale di Ally McBeal e Boston Legal, ma si sente con forza il tentativo di offrire qualcosa che sia molto riconoscibile, ma non per questo banale o “già visto”.
Se poi mi chiedete il perché dei bassi ascolti, potremmo trovare più cause. C’è sicuramente un problema di contesto: il lunedì è un giorno tosto per le cable; Dallas al momento non è un buon traino; TNT non ha una gran tradizione di medical (funziona meglio sui poliziesci e i legal). Anche l’atmosfera, molto più cupa rispetto alla media del genere, può aver giocato un ruolo importante.
Ma forse la motivazione è più banale, istintiva: non siamo abituati ai medici che falliscono. O meglio, siamo abituati a racconti in cui la bravura del medico è il fulcro di tutto. Ecco perché gli permettiamo di essere ninfomani (vedi Grey’s) o misantropi (vedi House): perché abbiamo la rassicurante certezza che porteranno comunque a casa il risultato (almeno la maggior parte delle volte). In Monday Mornings, invece, tutto gira intorno all’incompetenza, all’arroganza e all’errore. I medici protagonisti sono bravi, e pure molto, ma sbagliano anche tanto, perché se non sbagliassero non esisterebbe la serie così com’è concepita.
E’ più coraggioso, se volete, ma molto più rischioso.
Perché seguirla: bei personaggi, bella scrittura, un autore che ispira fiducia anche sul medio-lungo periodo.
Perché mollarla: perché guardate i telefilm con vostra nonna, che già di suo è spaventata dagli ospedali, e dopo Monday Mornings rifiuterà anche il vaccino dell’influenza.