16 Gennaio 2013 3 commenti

Mr. Selfridge – Tra Mad Men e Downton Abbey di Marco Villa

Un personaggio faccia-da-culo come pochi, una serie da non sottovalutare

Brit, Copertina, Pilot

A me stanno sulle palle quelli che cercano di vendere la propria (normale) attività lavorativa come qualcosa di straordinario. Se vendi una macchina, vendi una macchina, non una nuova esperienza di vita. Lo so, è una cosa che è a tanto così dal qualunquismo, ma su questo non transigo. Dei paletti bisogna metterli, ogni tanto. Quindi un personaggio come Mr. Selfridge (interpretato alla grande da Jeremy Piven, autore di una performance faccia-da-culo impressionante) tendenzialmente mi sta sulle palle e non solo perché mi ricorda un mio ex datore di lavoro che giocava con la sua ambizione sulla pelle dei suoi dipendenti. Il motivo per cui mi sta sulle palle è che lui, imprenditore che sta per aprire un grande magazzino a Londra, vende la sua impresa per qualcosa di più di un semplice negozio. La vende come il luogo che rivoluzionerà non solo le abitudini dei consumatori londinesi, ma ne condizionerà i desideri. Il fatto è che siamo nel 1909 e Mr. Selfridge – cazzo – ha ragione da vendere.

Mr. Selfridge è una serie inglese, in onda dal 6 gennaio su ITV (e poi sulla PBS americana) e incentrata sulla vita e le opere del suo protagonista. Una serie su una grande impresa commerciale, con l’aggiunta di diverse sottotrame legate ai dipendenti e alla vita personale dello stesso Selfridge, americano che va a insegnare agli inglesi come si vende la merce. Sullo sfondo, ma fondamentale, la Londra di quell’epoca, spezzata a metà tra il mondo affascinante dei ricchi e dell’alta società e quello poverissimo di chi quella società serve, riverisce. Invidia.

Il racconto è subito molto forte, grazie a una costruzione narrativa a flashback che cala da subito nella vicenda. Come detto, i piani sono due: quello lavorativo con il racconto della costruzione e poi dell’apertura del grande magazzino di lusso e quello delle vite dei protagonisti, siano essi ricchi o spiantati. A fare da collante Mr. Selfridge, affabulatore e venditore di sogni, affascinante come ogni affabulatore e venditore di sogni, ma con uno strato tragico che emerge sempre in controluce.

A volerla fare semplicissima (fin troppo) Mr. Selfridge è un Mad Men meets Downton Abbey. Di Mad Men prende quella dimensione lavorativa su cui mi sono soffermato fin troppo, compresa, ovviamente, la parte in cui il lavoro si trasforma in una missione quasi divina in grado di cambiare le vite delle persone che – povere stolte – sono al di fuori della cerchia degli eletti che a quel mondo lavorativo appartengono. Di Downton Abbey prende invece – oltre all’ambientazione quasi contemporanea – la netta divisione tra classi sociali che si toccano, ma non si mischiano, con una ferrea divisione non solo delle vite, ma anche dei problemi.

A livello di tono siamo più dalle parti della commedia, con dialoghi rapidissimi e una generale sensazione di leggerezza. Il tutto, però, con un rischio di drama e tragedia sempre incombente. Sì, lo so, ho praticamnete ripetuto la descrizione del personaggio del protagonista, ma del resto non è una caso che la serie si chiami proprio Mr. Selfridge.

E da lui dipende ovviamente anche il fatto che questa serie possa prendervi o meno. Come detto, ho una certa avversione per queste figure, ma la sensazione al termine del pilot era più che positiva. Potere dei venditori di sogni. O almeno di alcuni di loro.

Perché seguirlo: per l’ambientazione e per il concept interessante che unisce storia lavorativa e situazione privata.

Perché mollarlo: per il sentimento di amore-odio per il personaggio. E perchè non sopportate né Mad Men, né Downton Abbey



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