Homeland, finale della seconda stagione – Minchia! di Diego Castelli
Ancora sorprese dalla serie di Showtime
Perdonate il francesismo del titolo, ma stavolta ci sta. Homeland chiude la seconda stagione – dall’alto delle nomination, in mezzo agli elogi ma anche ad alcune critiche, insomma nel pieno centro del mondo telefilmico autunnale – e lo fa con un puntatone.
Un’ora e cinque minuti di rivelazioni e nuovi rilanci, secondo lo stile che ormai è marchio di fabbrica della serie di Showtime: ogni volta che pensiamo di aver raggiunto un punto fermo, ogni volta che pensiamo di aver capito che direzione sta per prendere la storia, blam, arrivano schiaffoni a ridestare l’occhio pigro che magari pensava di potersi rilassare.
Come altro descrivere, altrimenti, la bomba che esplode facendo fuori mezza CIA, tra cui anche quel David Estes che sembrava in qualche modo diventato IL cattivo? Fino a una settimana fa ci chiedevamo come fosse possibile sviluppare ulteriormente una trama che ormai sembrava ridursi alla mera questione “omicidio di Brody”, abbastanza per un paio di puntate belle tese, ma forse insufficiente per pensare a una terza stagione.
E mentre ancora stavamo riflettendo, la macchina di Brody esplode portandosi via Estes, ma anche la vedova e il figlio di Walden, giusto per toglierci dalle palle un altro paio di sottostorie che ormai avevano fatto il loro tempo.
Unito a questo momento, e vero propulsore del prossimo futuro, è poi il vecchio video-confessione del protagonista, che ricompare nel momento “sbagliato” ad attribuire a Brody una colpevolezza che stavolta non ha. Oltre a rivelare la sopraffina mente criminale di Abu Nazir, questo momento ci regala anche una sensazione speciale: la profonda percezione che tutto torna, che i dettagli che avevamo perso e quasi dimenticato sono in realtà parte di un disegno più grande, di cui ora riusciamo a cogliere meglio i contorni, sentendoci improvvisamente arricchiti. Poco importa che veramente, nel concreto, tutto torni. Basta che lo spettatore possa spalancare la bocca investito dalla consapevolezza di aver sempre avuto tutto sott’occhio, senza mai vederlo veramente.
Questo, a mio giudizio, è il maggior risultato conseguito da questo finale, che però non si accontenta mica. Come non citare il parallelo tra il funerale di Walden e quello di Abu Nazir, entrambi a loro modo assassini. O la storia d’amore tra Carrie e Brody, che solo in questo episodio esplode in tutta la sua forza ossimorica, sentimento talmente assurdo e irrazionale da apparire come amore vero e indiscutibile. Per non parlare della reazione di Carrie alla bomba, con quell’immediata accusa a Brody che tanto assomiglia a un grido della ragione nascosta sotto il penso della passione. Per finire, la faccetta tenerissima di Saul alla ricomparsa di Carrie: l’ho detto anche settimana scorsa che Mandy Patinkin è fantastico nel suo ruolo, e questo sguardo è il simbolo del suo rapporto con la giovane protetta, lontanissimo dalle sfere della sensualità ma ugualmente forte come il rapporto tra un padre e una figlia.
Si arriva quasi svuotati agli ultimi minuti, prosciugati dalle emozioni e dai capovolgimenti di fronte. Gli ultimi minuti appaiono così meno roboanti rispetto all’anno scorso, dove la consapevolezza di Carrie sull’identità di Brody veniva cancellata dall’elettroshock. Tuttavia, vengono comunque poste le basi per il proseguimento della serie. Se i due piccioncini fossero fuggiti insieme saremmo finiti in una terza stagione fatta solo di fughe e inseguimenti, mentre così abbiamo Carrie impegnata a riabilitare Brody contro poteri forti di cui forse non abbiamo visto l’intera ombra. E lo stesso Brody, che per lungo tempo è stato il terrorista pericoloso (per quanto potessimo considerarlo manipolato), è ora invece il “neo-innocente” da proteggere, l’uomo che meritava una seconda chance che però gli è stata strappata via.
Proprio qui mi sembra di vedere il maggiore rischio per la serie. Per due stagioni Brody ha rappresentato il simbolo della tensione e del mistero, vivendo su una grande ambiguità sia del punto di vista spionistico che amoroso. Ora quell’ambiguità sembra essere sparita, Brody appare ripulito, e questo può rappresentare un problema: può essere tuttora un passaggio troppo forte, troppo netto e troppo “facile”, ma soprattutto può essere un problema per il futuro, perché un Brody del tutto “buono” che combatte contro dei non meglio precisati “cattivi” può rappresentare la fine di Homeland come lo conosciamo e la nascita di una serie magari piacevole, ma non ugualmente impattante.
Detto questo, la bravura degli autori e degli attori è stata finora talmente alta, dallo scoppiettante inizio di stagione passando per tutti i mille stravolgimenti, che preoccuparsi troppo rischia di essere masochista e anche ingeneroso. Finora ci hanno divertito alla grandissima, è giusto credere che potranno continuare a farlo.
Come nota di chiusura, e visto che non l’abbiamo mai fatto prima, vale anche la pena di spendere due parole su Prisoners of War, la serie israeliana da cui Homeland è tratta. Elogiare gli autori di Homeland, senza sapere minimamente com’era il telefilm originale, rischia infatti di essere ancora una volta ingeneroso, ma stavolta nei confronti dei veri ideatori.
Dunque, non ho visto Prisoners of War, ma mi sono documentato, e possiamo continuare tranquillamente a entusiasmarci per Homeland senza paura di passare per americanofili a tutti i costi. Non perché Prisoners of War sia brutta o dichiaratamente inferiore, quanto perché in realtà prende strade diverse.
Le due serie sono state prodotte praticamente insieme, e il creatore di quella originale, Gideon Raff, è anche produttore esecutivo di Homeland. Anche in Prisoners ci sono soldati salvati da una lunga prigionia (tre e poi due, invece che uno solo), ma per quanto esista anche qui una componente di mistero e di spionaggio, il fuoco vero è riservato al ritorno a casa, al reinserimento in una società e in una struttura familiare che è andata avanti senza di loro, e che quindi pone delle resistenze. La situazione, insomma, è ribaltata: drammone con spolverate di suspense per Prisoners; thrillerone tesissimo con (robusti) accenni di drama per Homeland.
Soprattutto, in Homeland emerge grandemente la figura di Carrie, che in Prisoners non esiste e che qui invece diventa quasi la vera protagonista, persino oscurando la pur potentissima figura di Brody.
Insomma, i confronti non servono, e senza fare la figura dei superficialoni possiamo serenamente affermare che Homeland si riconferma come uno dei prodotti migliori dell’attuale panorama seriale.
Scusate se è poco.