22 Marzo 2012 20 commenti

La Versione di Tina – Il prequel di Sex And The City e il mio Big di Vale'n'Tina

Tra il prequel di Sex And The City e le disavventure della Vitali il passo

Aaaaaaaaaaaaand, i’m back.
No, non sono morta e risorta. Okkei che siamo sotto Pasqua, ma ancora di queste cose non so farne. Bello tra l’altro essere blasfemi di prima mattina. Ma comunque.
Ritorno oggi per darvi una di quelle notizie che ha reso esponenzialmente migliore la mia giornata, se non addirittura la mia vita (il che vi da la misura di come sto messa):  fanno un prequel di Sex’n’The City.
Ora, si sa davvero poco e nulla, se non che le probabili attrici saranno Elizabeth Olsen per Carrie, Blake Lively per Samantha, Christin

Davis per Charlotte ed Emma Roberts per Miranda. La trama sarà basata su The Carrie Diaries e Summer And The City, ovvero i due libercoli che raccontano dell’adolescenza di Carrie, prima che diventasse stratofiga e prima che decidesse di farsi scarnificare la vita da Big.
Che poi, a rifletterci, è surreale pensare al “prima di”.
Prima di Carlo, prima di Pietro.
Prima.
Abbiamo avuto tutte un Big nella vita. Il mio non è stato né Carlo, né Pietro (quelli, true story, sono venuti dopo). Il mio, di Big, mi fa strano ricordarlo adesso.
Ripensare a quella volta che per dispetto gli avevo spruzzato il mio profumo addosso, ma, per errore, avevo mirato un attimo troppo in alto e gli avevo centrato un occhio.
Eravamo morti dal ridere.
L’entrare e uscire di Big nella vita di Carrie è la fotocopia esatta di quello che successe a me oramai… fammi contare… tre anni or sono. Anzi, due, se vogliamo includere anche gli strascichi del genere “e comunque ci ho ripensato e sono sotto casa tua”.
Mi ricordo quando, quella volta che a Milano aveva nevicato da morire e le strade erano un cumulo di neve impenetrabile, ci eravamo ricoperti di sciarpe, guanti, cappelli solo per poterci incontrare in Duomo e cenare insieme. Lui mi aveva detto che ero un po’ ridicola con quel paraorecchi viola. Poi aveva riso, come faceva lui quando era allegro. E io avevo avuto la netta impressione che mai, mai, nella storia dell’intero universo nessuno avesse mai amato nessun altro come io amavo lui.
Mi ricordo quando mi aveva chiesto se volevo passare la vigilia di Natale a casa sua. E mi era venuto a prendere, camicia nera, pantalone nero, giacca nera. E poi mi aveva detto che ero bellissima.
Mi ricordo quella volta in cui ci stavamo gridando addosso per strada. Perché eravamo stanchi, e non ci capivamo più.
Mi ricordo quelle cinque di mattina arrivate di sorpresa, parlando di Woody Allen e del fatto che era impossibile che io non fossi a conoscenza dell’esistenza della regione Molise. Mi aveva messo i capelli dietro un orecchio. Mi aveva dato un bacio sulla guancia. E mi aveva detto “buonanotte”.
Lo conoscevo da una settimana. Ed ero già innamorata di lui.
Dopo quelle cinque di mattina ci sono stati quattro lunghissimi anni nei quali per la maggior parte del tempo eravamo amici. Leggi: io mi frantumavo anima e cuore in attesa sua. Lui mi diceva che, appunto, eravamo amici. Salvo poi ogni tanto modificare la sua versione in “il problema vero è che sono una persona difficile”.
Sé. Vabbè. Io vorrei non vorrei, ma se vuoi. A Lucio Battisti.
Mai creduto a queste cose. Secondo me, in questi casi, la verità è una sola: non gli piaci abbastanza.
Poi, lui era in effetti difficile. Anche se “difficile” non rende bene l’idea. Lui era l’incarnazione dell’idea platonica di difficoltà. E sono sicurissima che in questo prequel vedremo prese di coscienza e batoste simili. Per fortuna tornano “le ragazze” -anche se in formato giovincelle – a farci compagnia. A guidarci, dal basso della loro pischellaggine. Almeno un po’.
Comunque. Passano quattro anni. Matematicamente, ogni volta che in vaghissimo modo provo a mollare il colpo (“ho incontrato una persona”, “facciamo che non ci vediamo per un po’” et similares), lui torna. Fisso. Sempre. Puntuale come solo quelli che sanno fare veramente male.
E io, ovviamente, puntuale come solo quelle che sanno farsi veramente male, cedevo. Ma d’altronde, che devi fare quando sei così innamorato? Dai, siamo onesti. E poi lui era bellissimo, cosa che aggravava di parecchio la mia posizione.
Arriva l’estate del quarto anno. Passiamo una notte intera in giro per Milano. A parlare. A camminare. A fumare. Poi io “devo dirti una cosa”. “Dimmi”. “No, non posso dirtela camminando”.
Ora, quello che io stavo per fare, dopo 1460 giorni di leggermente straziante agonia, era mettere le cose in chiaro. Era prendermi un due di picche, se dovevo, ma almeno mettermi l’anima in pace.
“Dimmi”. “No, non posso dirtela camminando”. E lui “che buffo… tutte le donne della mia vita hanno sempre avuto questa fissa”.
Tutte le donne della mia vita? Ergo, deduzione logica, sono una donna della sua vita. Ma…vuoi vedere che…anche lui…
No. Non mi amava. Almeno non fino al Natale successivo. Là, aveva cambiato idea.
Io stavo facendo il the, e lo stavo fanculizzando per qualche motivo. Il motivo, credo, fosse un film. Ma da due che scrivono, non è che puoi pretendere che si litighi per cose serie.
Mentre sbuffavo in cucina, lui era andato in soggiorno.
Mi ricordo che Frank Sinatra aveva iniziato a cantare The Way You Look Tonight. Poi so che avevamo ballato per un po’. E poi, l’ultima cosa che so è che nessuno, mai, nella storia dell’intero universo, aveva amato una persona come io stavo amando lui.

Quello che di buono ti lascia la fine del primo grande amore non sono i ricordi felici secondo me.
Sono le ferite.
È l’acquistare la granitica e piacevole certezza che male come quella volta non potrai più stare. E non perché ti fermerai prima, la prossima volta. Ma perché il primo Big t’insegna ad amare in modo diverso. Ti insegna ad amare.
Sapete cosa ho sempre pensato? Che è una questione di scelte. Che può essere che la persona che hai davanti non sia capace di voler bene (ma poi, chi lo è?). Può essere che ti trovi ad aver a che fare con l’indecisione e il dramma personale altrui.
Il punto è: quanto, quella persona, è disposta a provarci a stare con te? Quanto è disposta a tentare di superare le sue mancanze, le sue indecisioni, e i suoi drammi?
Il primo Big t’insegna a rispondere a queste domande.
E ad andartene.
Se devi.

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