6 Febbraio 2012 4 commenti

Grey’s Anatomy What If – Non sanno più cosa inventarsi… di Diego Castelli

Dopo il musical, un’altra puntata scritta sotto acido

Copertina, On Air

Shonda Rhimes ne ha fatta un’altra. Dopo la puntata musical, ancora una deviazione inaspettata, che sterza bruscamente dai consueti toni e trame per finire nelle insidiose paludi della sperimentazione.
Ci piacerebbe dire che, con la puntata “What If”, Rhimes  e soci hanno sondato nuove possibilità narrative, svelando il processo creativo sotteso alla realizzazione di uno show come Grey’s Anatomy, ampliando l’approfondimento dei suoi personaggi. Più probabilmente, Shonda Rhimes non sapeva che cazzo scrivere questa settimana e ha ben pensato di tirare fuori gli appunti di dieci anni fa, quando ancora doveva decidere se la madre di Meredith aveva l’alzheimer o no.

Diciamo subito una cosa importante: è andata meglio che col musical. Non difficile, direte voi, visto che quell’episodio era una boiata colossale. Stavolta qualche trovata era pure apprezzabile, ma ciò non significa che non rimangano un bel po’ di problemi

Il “What If” non l’hanno certo inventato Shonda Rhimes e soci. E’ anzi quasi un sottogenere, che attraversa un po’ tutti i media narrativi, chi più chi meno. Pensate a Sliding Doors, per esempio, o a tanti libri più meno recenti che ipotizzano corsi diversi della Storia umana (come quelli che immaginano cosa sarebbe successo se i nazisti avessero vinto la guerra). Ci sarebbe poi un capitolo a parte da dedicare ai fumetti, con la Marvel che in tantissime occasioni ha incaricato autori di grande pregio di inventare versioni alternative dei vari Uomo Ragno, Wolverine, Fantastici Quattro ecc.
E per rimanere legati alla serialità recente, lo stesso Fringe gioca continuamente col “cosa sarebbe successo se”. Se Olivia fosse rossa e non avesse un palo nel culo, se Peter non fosse mai sopravvissuto, se, se, se.

Quindi insomma, Grey’s Anatomy aveva dietro la sua bella tradizione.
Il what if non è un genere rigidamente codificato, e si può fare un po’ come si vuole. Detto che nel corso degli anni sembrano essersi stratificate una serie di regole di buon senso, che mirano alla comprensibilità generale della storia e alla sua solidità in termini di sviluppo.
Per esempio, si può decidere di cambiare uno e un solo elemento assai significativo, e vedere cosa succede. Oppure si può modificare tutto quanto, con una precisa logica di ribaltamento totale dei caratteri e dei desideri. E poi bisogna considerare anche dove si vuole andare a parare. Se cioè, come autori, si è favorevoli al cambiamento vero, oppure se si preferisce affermare che, pur cambiando i fattori, il risultato finale rimane più o meno lo stesso.

Ed eccoci alla prima minchiata di Shonda Rhimes: l’approccio misto. Sì perché la puntata what if di Grey’s Anatomy sembra inizialmente basata su un unico cambiamento rilevante, cioè la sopravvivenza della madre di Meredith. Non appena la vediamo in giro ci prepariamo a riconoscere in ogni dettaglio l’influenza del suo esistere. Però poi Callie sta con Owen (eh?), Meredith con Karev (eh?), Derek non ha mai lasciato Addison, che anzi è pure incinta (niente “eh” qui, era la cosa giusta da fare, caro il mio Shepherd). Capiamo che insomma, dobbiamo essere un po’ più aperti. Bene, allora pensiamo che sia tutto da ribaltare, che sia stata scelta una realtà alternativa per tutti. No, sbagliato anche questo, perché Avery è praticamente uguale a sé stesso (forse il povero Jesse Williams sa fare solo un personaggio), Cristina non è cambiata poi molto, e Webber è sempre quell’orsacchiottone che già conoscevamo.

Sto un po’ esagerando, ovviamente, perché a cercarli i collegamenti si trovano: Ellis Grey, con la sua fama schiacciante e la sua relazione ormai dichiarata con Richard, ha limitato le aspirazioni e le capacità di Derek e della Bailey (in una versione con le treccine davvero imbarazzante), riducendoli a ombre tremanti di loro stessi; ha portato il padre di Meredith al suicidio, con conseguente influenza sulla condotta di Lexie, diventata una punkabbestia; ha impedito a Meredith di crescere, lasciandola in uno stato vagamente adolescenziale fatto di scarsa spina dorsale e attrazione per uno come Karev.
Il problema è che si percepisce un po’ di disordine: una puntata del genere, che basa tutto sull’effetto farfalla, spinge lo spettatore a cercare collegamenti ovunque, e il gioco della ricerca, se non adeguatamente supportato da una scrittura d’acciaio, che sostenga e gratifichi quella ricerca, rischia di diventare più importante del coinvolgimento nella storia. Così finiamo con l’impegnarci troppo a capire l’ipotetico “perché” Callie non sia (ancora) lesbica, o il perché Sloane compaia solo alla fine, come elemento esterno e mai prima conosciuto, piuttosto che goderci pienamente la creatività nuda e cruda di queste scelte, che di per sé possono anche essere divertenti.

C’è poi il problema della grandi assenze: Burke, Izzie e O’Malley vengono citati distrattamente, giustificando la loro assenza con poche parole. Difficile fare diversamente, considerando che i tre attori ormai sono andati per la loro strada, ma rimane comunque un po’ di amaro in bocca, come se ci aspettassimo una sorpresona che alla fine non arriva.

La scelta della Rhimes per il finale ricade almeno parzialmente su quell’approccio “conservatore” di cui parlavamo prima. Per buona parte dei personaggi, la storia finisce con l’essere simile all’originale: Meredith si ritrova in un bar con Derek, con qualche sguardo malizioso di troppo, Karev torna a essere il bastardo sciupafemmine di sempre, Lexie potrebbe infine decidere di iscriversi a medicina, Callie capisce che in fondo le bionde le piacciono quanto i rossi, Cristina si spoglia di un po’ di stronzaggine per diventare amica di Meredith.
Il cerchio si chiude, quindi, e sembriamo pronti a ricevere messaggi definitivi e rassicuranti. Ma ancora una volta, questi messaggi non arrivano: la puntata si apre facendoci vagamente capire che quello che stiamo vedendo è un sogno della protagonista. Peccato che alla fine non ci sia alcun risveglio, alcuna presa di coscienza di ciò che è (virtualmente) avvenuto. Che intendiamoci, non è mica obbligatorio, ma in una serie come Grey’s Anatomy, in cui la voce narrante filosofeggia anche sulla cottura delle uova, una volta che ci sarebbe bisogno di un po’ di retorica femminileggiante si preferisce andare a nero, chiudendo una parentesi di cui mai più si parlerà.

Questo modo di agire depotenzia il possibile significato dell’episodio, rendendolo poco più che un divertissiment, un pomeriggio di libertà creativa per gli autori.
E allora sorge la grande domanda, forse l’unica che conta: PERCHE’?
Perché avete fatto questa cosa, quando nessuno ne sentiva il bisogno? Cosa ne abbiamo ricavato, alla fine? Cosa ne hanno ricavato i personaggi veri, che di questa esperienza alternativa non sanno nulla, forse nemmeno Meredith che l’ha sognata?
Non sembra esserci risposta a queste domande, che non sia “gli andava di farlo, e l’hanno fatto”. Cosa che però, al di là di un innegabile divertimento nel seguire alcune delle deviazioni – mi è piaciuto che fosse uno Sloane non ancora comparso a salvare Lexie, così come ho trovato azzeccato il carattere dimesso di Derek, schiacciato dalle personalità di Addison e di Ellis Grey – ha lasciato ben poco, ed è parsa stonata per un periodo come febbraio (un esperimento del genere è classico di Natale), e per una serie come Grey’s Anatomy, che non è né FringeScrubs.

E qui arriva la botta vera: il pensiero di come sarebbe stata questa puntata se l’avesse scritta Dan Harmon, creatore di Community.
Ho come l’impressione che in quel caso avrei scritto un post di soli elogi.



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