9 Dicembre 2011 4 commenti

Sons of Anarchy 4 – Il finale della stagione più bella di Diego Castelli

Nuove sfide e un coitus interruptus per il capolavoro di Kurt Sutter

Copertina, On Air

OCCHIO, SPOILER A MANETTA!!!

Quel bastardo di Kurt Sutter ce l’ha fatta.

La notizia del rinnovo di Sons of Anarchy per una quinta stagione era arrivata ormai da settimane, eppure, fino al penultimo episodio di quest’anno, una domanda mi rodeva il cervello: come diavolo è possibile, con tutto il po-po che sta succedendo, che si riesca a tirare fuori altri 12-14 puntate?
Perché sembrava davvero la fine, ragazzi miei: tra Jax, Clay, Gemma, Tara, le lettere di John, i messicani e gli irlandesi, ci sembrava di galoppare freneticamente verso una conclusione potente e sanguinosa. Che, sia chiaro, attendevamo con una certa ansia. Eppure, vuoi per reali volontà creative, vuoi per portare a casa un altro anno di pagnotta, Kurt Sutter ha cambiato nuovamente le carte in tavola.

Cominciamo col dire che è stata probabilmente la migliore stagione di Sons of Anarchy finora prodotta. Sicuramente meglio della terza, che al netto di un’ottima parte finale si era un po’ persa nei meandri delle sottotrame irlandesi. Quest’anno invece, la forza della tragedia ha spianato tutto, facendo terra bruciata.
E non uso a caso il termine “tragedia”: questa quarta stagione è quella che più ha evidenziato il carattere shakespeariano, e precisamente amletico, del telefilm. Va detto che era un dettaglio esplicito: un protagonista giovane e contrastato, figlio di un padre morto (un fantasma) di cui si sente pesantemente la (non) presenza, ucciso, come poi si è visto, da un uomo a lui vicino che si è preso il suo trono e la sua sposa. Cioè, è Amleto proprio, non è che ci si possa sbagliare. Tra l’altro l’episodio si chiama “To Be”: ci mancava solo che aggiungessero “or not to be”, e potevano anche tirar fuori le calzamaglie e i teschi.
Se questa componente è sempre stata importante, anche se distorta dal rombo delle moto e dal crepitio degli spari, stavolta è stata il perno unico di tutta l’azione. Per l’intera stagione, i problemi meramente “polizieschi” sono sembrati un semplice pretesto per dare modo a Jax e Clay di avvicinarsi sempre più alla resa dei conti. Dopo la morte, l’anno scorso, di quella vacca della Stahl (ancora godo), Sutter ha creato una nuova storia criminale in cui far muovere i suoi pupazzetti, senza però dimenticare mai il fine ultimo: far esplodere fragorosamente tutte le questioni ancora irrisolte che i nostri biker si portavano sul groppone. Prima fra tutte, ovviamente, la faida tutta familiare tra Clay e Jax, con il ragazzo finalmente consapevole di quasi tutte le porcherie messe in atto dall’ex amico e padre putativo.

Insomma, era davvero difficile prevedere le mosse degli autori per dare nuovo slancio alla serie.
Kurt Sutter ha giocato una mossa relativamente semplice: ha ribaltato il ruolo dello sfondo. Se finora i problemi con la legge e le questioni del club erano stati una spinta costante verso il conflitto, verso la deflagrazione finale, ora quegli stessi elementi diventano un freno, un impedimento. La CIA fa sapere a Jax che Clay deve rimanere in vita, per condurre le operazioni con gli irlandesi. Se dovesse sparire, al sempre amichevole governo americano basterebbe schioccare le dita per mandare tutti i sons in galera e distruggere il club. Il povero Jax, che era disposto a mollare SAMCRO in nome dell’amore, e che non vedeva l’ora di mandare all’altro mondo il patrigno fetente, finisce col trovarsi bloccato. Lo dice lui stesso: mollare il club sì, lasciarlo morire no.
In quaranta minuti, abbiamo così un sacco di nuove domande. Vogliamo sapere cosa succederà di Clay quando tornerà al tavolo del club. Vogliamo sapere se e come Jax verrà a sapere del coinvolgimento della madre. Vogliamo sapere se e come i nostri cercheranno di liberarsi del guinzaglio della CIA, per tornare a essere liberi (detta così sembrano dei cocker, ma ci siamo capiti).

Così concepito, il passaggio è un colpo di genio, ma non è indolore. Questo finale, per forte che sia, non può essere paragonabile a ciò che invece ci aspettavamo, vale a dire una risoluzione definitiva del conflitto. Non siamo mai stati così vicini alla battaglia conclusiva, e vederla evaporare per colpa di un semplice “è arrivata la CIA” non può che avere l’effetto di un coitus interruptus. Qualcuno, insomma, potrebbe anche non apprezzare un cambio di prospettiva così repentino.
A questo punto Sutter ha il compito di far risalire la tensione, dopo averci sballottato per tre mesi e averci lasciato con un leggero ma inevitabile amaro in bocca. Per dirla in maniera chiara: questa serie si è avvicinata così tanto alla sua roboante conclusione, che se ora ci si allontana troppo rischia di perdere la bussola e cominciare girare a vuoto. Credo, ma più che altro spero, che non succeda.

Un’ultima nota prettamente visiva. Stavolta è giusto rendere omaggio ad alcuni dettagli della regia dell’ultimo episodio. E’ una puntata di enormi tensioni, ed è lo stesso Sutter a girarla magistralmente, dilatando i tempi e soffermandosi sulle espressioni sconvolte di uomini e donne che ormai le hanno viste tutte. Le immagini più potenti si raggruppano negli ultimi minuti: la lenta marcia di Jax verso la sedia da presidente ci trasmette tutta l’importanza del passaggio di consegne, e non perde una virgola del suo amarissimo retrogusto (Jax avrà anche sognato di diventare presidente, ma di sicuro non a queste condizioni).
L’immagine finale, poi, quel riprodurre da parte di Jax e Tara la stessa posa della vecchia foto di John e Gemma, la dice lunga sul significato che Sutter vuole dare a questo episodio: tutto è cambiato, ma in realtà tutto è rimasto uguale, e i Figli dell’Anarchia, oggi come venticinque anni fa, siedono su una polveriera di odio, inganni, segreti e bugie. L’hanno prossimo scopriremo se Jax e Tara sapranno essere più saggi e capaci di chi è venuto prima di loro…
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